Delle 3 estati che ho passato in famiglia in Inghilterra mi sono rimasti un pugno di ricordi. L’aver perso 2-3 kg a soggiorno rientra sicuramente nella categoria: non mi considero certo una persona dai gusti culinari particolarmente raffinati, ma la merda che mi spacciavano per lunch finiva rigorosamente nel cestino dopo un paio di morsi. Sempre. E ancora non so come ho fatto quella sera, tanto per cambiare piovosa, a finire tutto il polpettone generosamente e ignobilmente cucinato. Ah sì, ecco nei meandri della memoria anche un paio di belle serate mezze alcoliche e pure due storie durate fino al pullman di rientro da Malpensa. Ma il ricordo che si erge prepotente e sovrasta gli altri sono senza ombra di dubbio gli inglesi. Alcuni, non tutti, li avrei presi a badilate in faccia. Quello che mi dà fastidio è quel loro modo di porsi. Non ti osservano, ti scannerizzano. Cazzo, se ti concentri riesci pure a vedere la luce verde che ti passa dalla nuca ai piedi. Dall’alto (la loro posizione) in basso (la tua). Diversi. Si sentono, e forse si credono ancora, superiori. Nessuno glielo deve aver detto che la sterlina forte, l’Impero, i Beatles e i mondiali del ’66 sono storia.
Sherlock Holmes incarna una spremuta di orgoglio britannico con il suo fare pomposo, gentile, autoritario ed autorevole, geniale ed impassibile perfino nelle situazioni più pericolose. Un fottuto ed odioso gentleman di fine ‘800 in tutto e per tutto!
I racconti di Doyle sono davvero piacevoli, con descrizioni curate, capaci di ricreare atmosfere ed ambientazioni che ben si prestano ad una trasposizione cinematografica. L’ego smisurato di questo odioso e talentuoso detective è reso in modo talmente convincente che è impossibile, almeno da parte mia, non fare il tifo per il bandito di turno, il poliziotto inetto di Scotland Yard o l’impavido quanto fedele Watson. Sì, sembra proprio che questo dottore sia il suo cagnolino. Aspetti qui per cortesia Watson, prenda il bastoncino Watson, seduto Watson, Le dirò tutto a tempo debito Watson. Questo è Sherlock “Arrogance” Holmes.
Ogni racconto inizia così. Lui guarda la pioggia cadere dalla finestra di Baker Street, si gratta lo scroto sulla poltrona mentre fuma la pipa, accarezza il violino, legge la cronaca insipida del Times e si lamenta; perché la sua mente geniale e logica non viene impegnata in qualche problema degno della sua fama. Poi arriva un cliente ansimante che gli snocciola una matassa con 18 nodi marinai inestricabili ed in venti paginette di deduzioni tanto logiche quanto impossibili, travestimenti e gran finale teatrale si ritorna alla poltrona cui sopra. Alla lunga i racconti, specie se snocciolati in rapida sequenza, perdono mordente per la ripetitività dell‘iter e della struttura, ma i romanzi devo ammettere che mi sono piaciuti oltremodo. Questo in particolare.
IL MASTINO DEI BASKERVILLE
Un nobile corre ansimante. Una corsa a perdifiato per la vita. Lo sguardo dilatato, incredulo e pieno di puro terrore si volge all’indietro, verso un qualcosa di enorme che, pur avvicinandosi, perde ogni forma reale nell’oscurità della notte in cui si palesano oltremodo i suoi fiammeggianti occhi. Una creatura degli inferi. Altri passi sfrenati e poi si ritrova giù, a terra, con il suo cuore malato fermo. Per sempre. Il positivismo del metodo analitico e logico di Holmes si scontra in questo romanzo con un intrigo che sembra assumere i contorni del paranormale e della superstizione. Doyle, avendo a disposizione un numero congruo di pagine, riesce a ricreare con meticolosa cura l’atmosfera di sospetto e diffidenza degli abitanti di un paesino sperduto, restio a relazionarsi con i cittadini. Sembra impossibile che in tale minuscolo contesto possa convivere un mistero che vede perseguitare una nobile famiglia, i Baskerville appunto, oramai senza più eredi. Rimane solo l’ultimo rampollo Sir Henry. I molteplici personaggi, descritti nel susseguirsi della storia, sembrano nascondere qualcosa e non fanno che gettare polvere negli occhi del lettore: attratto dalla sublime ambientazione gotica della brughiera e disorientato dalla piega contorta degli eventi. Ci sembra di vederla, la magnetica palude: specie di notte con i suoi perigliosi anfratti nascosti dalla bruma ed illuminati dalla luna. Diventa uno scenario perfetto per inscenare un giallo enigmatico e dalle tinte scure in cui si stenta a prevedere un epilogo fino a poche pagine dal termine. Holmes finalmente sembra essere in crisi, i suoi metodi vengono lungamente schiaffeggiati ed irrisi. E' davvero un bel giallo.
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