L'ispirazione m'è venuta mentre recensivo Yuka Honda, e ho pensato valesse la pena di presentarvi anche uno dei migliori progetti della sua principale collaboratrice. Per la verità, questo album l'avevo già ascoltato tempo fa, ma dapprima avevo rinunciato a recensirlo, quasi dando per scontato che un contributo, al riguardo, fosse già presente su Debaser. E invece, con mia grande soddisfazione, ho scoperto che questo autentico gioiellino nascosto era passato sotto silenzio, e subito ho colto l'occasione per spenderci sopra due parole; trattasi infatti di uno degli album che ho più gradito, nell'ultimo decennio. Una vera prelibatezza, a dirla tutta, di quelle che non capita di ascoltare tanto spesso...

Con la voce di Miho, in realtà, è stato amore al primo ascolto, e non soltanto perché parliamo di un'altra artista cresciuta a Tokyo e dintorni; a farsi apprezzare è il suo stile dolce, pulito, sottilmente sensuale, il suo essere interprete alternativa pur nella chiarissima consapevolezza dei moduli della canzone tradizionale, pur con un piglio melodico e una finezza interpretativa non così comuni fra le cantanti venute dal Punk (lei è una di quelle, ma pare che in giovane età, prima di trasferirsi a New York, lavorasse in un negozio di dischi: il contesto perfetto per farsi una cultura musicale sufficientemente completa). Ed è difficile non provare simpatia per quella sua aria infantile, quell'approccio vagamente tenero e giocoso (oltreché magnificamente auto-ironico) che è dato di cogliere in tutte le sue esibizioni; tutte qualità, queste, che miss Hatori è stata capace di trasferire nei tanti dischi a cui ha collaborato, spaziando con sbarazzina leggerezza (forse noncuranza...?) dal Synth-Pop al Garage-Rock, dai salotti dell'avanguardia di Manhattan, al fianco dell'onnipresente John Zorn, a insolite tentazioni etniche fra Africa e America Latina. 

Qui la troviamo in compagnia del chitarrista losangeleno Smokey Hormel, col quale Miho condivide una singolarissima quanto vibrante passione per il Samba e la Bossa Nova, e più in generale per tutto quanto venga dal Brasile anni '60 e '70 (la copertina stessa è un richiamo, neanche così velato, a quell'epoca). Una passione in comune che i due hanno scoperto così, quasi per caso, incontrandosi durante una tournée sul finire dei Novanta (per la cronaca, le Cibo Matto facevano da spalla a Beck, e Hormel era nella "backing-band" di Beck). Una collaborazione da cui nascono due mini-album e, nel 2003, questa raccolta che li comprende entrambi (alla quale, purtroppo, non è stato dato alcun seguito...). Dieci pezzi interpretati con passione e (immancabilmente, considerato il genere) nostalgia, fra atmosfere fascinose e decisamente "vintage" che riportano alla memoria i vecchi vinili di Vinicius De Moraes (il preferito della giapponese), Caetano Veloso e Antonio Carlos Jobim; impeccabile la tecnica di Smokey a sostenere la delicata vocalità di Miho, che dal canto suo è una carezza per le orecchie: avete presente un Arto Lindsay in gonnella...? (e va bene, lo so che l'immagine, solo a pensarci, è a dir poco raccapricciante, ma c'è davvero molto, di Arto, qui; della sua produzione solista e più "cantautorale", ovviamente).

Indispensabile precisazione filologica per la corretta fruizione dell'opera: i primi cinque pezzi, quelli desunti dal secondo EP del duo, appartengono tutti al repertorio della coppia Baden Powell-De Moraes (i Lennon-McCartney della Bossa, mi sia concesso l'accostamento), e ad essere rivisitati, magistralmente, sono classici come "Tempo De Amor", "Consolacao" e "Bocoche"; meraviglie dal sapore dolce-amaro, ammalianti nel loro dondolante procedere. A metà album, quindi, è già estasi totale per l'ascoltatore, ancor prima di gustare (ma è tutt'altro che un semplice, spassionato contorno) quattro composizioni originali a firma Hatori-Hormel, più un tradizionale ("Nzage"), abbellito dalla presenza del vibrafono, suonato dallo stesso chitarrista; chitarrista che altrove si disimpegna, con ottimi risultati, anche al basso e al piano Wurlitzer. Ma è la giapponese l'indiscussa incantatrice, con le sue evoluzioni, il suo timbro suadente, il suo languido cantato quasi "sbadigliato" a tratti.

Non è un album facile da procurarsi, sia detto, ma assolutamente da ricercare, così come - ve lo anticipo ma magari ci ritornerò - il debutto solista di Miho ("Ecdysis", del 2005, fra l'altro anch'esso giocato - almeno in parte - in chiave "carioca"). Ma per il momento ascoltatevi questo, e fatemi sapere...   

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