E' ancora possibile fare un film muto negli anni 2000?

Sofia Coppola dice di sì, e nel 2003 sforna quello che fino ad oggi è considerato il suo manifesto: "Lost In Translation", l'amore tradotto, è l'inizio di tutto. E la fine per me non c'è.

Bob Harris (Bill Murray) e Charlotte (Scarlett Johansson), entrambi incastrati in un matrimonio privo di stimoli, si conoscono durante un periodo di contemporanea permamenza in un albergo di Tokyo, ognuno per i propri motivi. Si conoscono e si guardano, si accompagnano, si conoscono, si frequentano e, alla fine, si salutano. Ma davvero?

Sofia Coppola, liberatasi dalle vesti della figlia del padrino, dà un'ulteriore dimostrazione che per rendere memorabile una pellicola è abbastanza una scena, un attimo, qualche secondo per avere il dono dell'immortalità: se ne "Il giardino delle vergini suicide" bastava quella sequenza surreale con le maschere a gas, qui ci vogliono una manciata di parole sussurrate da Bill a Scarlett senza che il pubblico le possa sentire. Alla fine, giusto prima dei Jesus And The Mary Chain. Silenzio - tunnel - uscita.

Ma si salutano con un sorriso, perchè lui le dice che si rivedranno, perchè quell'espressione degli occhi di entrambi può voler dire solo che io non so stare senza accarezzarti, senza i tuoi piedi, le tue labbra, la tua espressione nel buio, senza il tuo continuo girare per casa, mi hai cercato, ti sei fatta scoprire e ora resto, non me ne vado, neanche se me lo chiedi, neanche se me lo impongo.

Perchè essere infelici a vita a causa di un patto non mantenuto?

La pazienza è la virtù dei forti, e io non ho mai pensato di essere debole. Sofia Coppola ambienta il suo film-simbolo in Giappone, sceglie la terra che sta dall'altra parte, dall'altro lato dell'oceano, lontana come Alessandro Baricco voleva farcela intendere in "Seta", senza i Boeing 747 che ti ci portano in mezza giornata, senza i viaggi d'affari che la attraversano, lontana e basta, un altro mondo, un'isola, la mia isola preferita, dove atterro quando voglio stare bene.

I dialoghi sono ridotti all'osso, si gioca tutto sugli sguardi, gli scenari, la consueta ironia da premio Oscar di Bill Murray, la bellezza infinita e semplice di Scalett Johansonn, le espressioni dei volti stanchi e ravvivati da ciò che capita all'improvviso e che entrambi non vogliono perdere, ora che ti ho trovata non voglio, tienimi. Trattami bene.

L'ambientazione in un paese straniero, straniero per tutti, ha del geniale, non c'è lingua che si comprenda, non c'è gesto che risulti familiare a nessuno dei due, il Giappone come specchio della propria vita: solitudine, estraneità, necessità di una guida, di conforto, di affetto. E poi una chiamata, eccomi, eccoti, un saluto, un abbraccio in mezzo alle luci, una voglia di fare l'amore che si fa attendere ancora a lungo. Fino alla fine che io, ripeto, non vedo.

Bill Murray, con le sue magliette al rovescio e la sua voglia di alcool, spogliato dell'equipaggiamento da acchiappafantasmi, è il perfetto uomo di mezz'età in cerca di se stesso; Scarlett Johansonn, rivestita di naturale eleganza e di parrucche fosforescenti, è lo specchio dell'insoddisfazione legata a scelte sbagliate, della pianta appassita che ha bisogno d'acqua, del volto pallido in cerca di sole.

E allora in mezzo a questo mare di solitudini io adoro il tuo sguardo, e allora in questo universo sconosciuto io prendo la tua mano e ti faccio brillare gli occhi di nuovo.

E allora, perchè no?

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