La strana coppia formata da Marc Almond e Dave Ball tornò in pista nel 1983, due anni dopo il felice debutto a 33 giri "Non-stop erotic cabaret". Difficile dar seguito a un lavoro del genere, felice negli esiti commerciali e artistici, e in grado di fornire una fotografia sociale ambigua e vivida di certa Inghilterra all'abbrivio del Thatcherismo. L'anno sabbatico era stato colmato dalla pubblicazione di "Non-stop ecstatic dancing", uno dei primi album di "remix" della storia, che sancì la loro natura di prime movers della scena techno-pop. "Memorabilia"confermò anche col restyling balliano di essere una delle canzoni più influenti dell'epoca (i New Order con "Blue Monday" di lì a poco avrebbero recepito...) con quel giro di basso robotico usurpato a James Brown, echi moroderiani, rumori assortiti cuciti dal mastermind Ball e plasmati dalla ineguagliabile espressività della voce di Almond, mentre in "A man could get lost" si registravano addirittura prodromi house, tra acide e assillanti battute di synth e batteria elettronica.
La gestazione di "The art of falling apart" fu dunque complessa, sia per le enormi aspettative, sia per le prime spinte centrifughe all'interno del duo, di cui il titolo è chiaramente sintomatico. Il risultato fu un lavoro dal sapore epico, non privo di contraddizioni, ma dotato di momenti di assoluto spessore, e nel quale la perdita di quel quid di urgenza, confusione e viziosità che aveva contraddistinto il debutto fu in parte compensata da una maggiore audacia compositiva.
La prima facciata rivernicia, con fin troppo mestiere, il sound di "Non-stop erotic cabaret": i suoni ossessivi e i vocalizzi caotici della disco-music seventies, le tastiere di matrice Suicide che ricreano l'enfasi up-tempo del Northern soul e un gusto melodico di derivazione Roxy Music nell' intarsiare il tutto (emblematica in tal senso "Kitchen sink drama", copia invero un po' pallida di "Say hello wave goodbye").
Anche le tematiche almondiane riprendono i suoi più celebri stilemi, benché il pathos di una "Youth" non venga eguagliato. In "Where the heart is" Marc riannoda i tormentati fili del bedsitting e dell'alienante condizione omosessuale giovanile, mentre in "Heat" sprofonda in un vortice di depravazione lasciva, nell'anonimato di una dark room. Proprio il brano in questione, sfociando in una coda sonora straniante, spiazza e introduce la seconda facciata. Qui entra in scena un imponente melodramma barocco. Sia Ball sia Almond alzano la posta, con impatto e godibilità assicurati. "Baby Doll" avvince, avvitandosi in una spirale grandiosa, proprio come la title track, in cui gli intrecci tra la grandguignolesca voce di Almond, le abbaglianti tastiere e il sintetizzatore di Ball raggiungono la perfezione, mentre di "Loving you, hating me"colpiscono gli echi di soul bianco e inusitate sgusciate di chitarra elettrica che squarciano opulenti squilli synth-pop.
Il viaggio sull'orlo del collasso prosegue con "Jimi Hendrix medley", nel quale vengono destrutturati la sensualità e il groove della più classica delle icone rock in glaciali soluzioni minimaliste. "Martin" è invece uno degli apici dell'intero repertorio softcelliano: una intensa cavalcata in bilico tra torbida ferocia e raffinata teatralità, solcata da clangori percussivi e arrangiamenti frastornanti nel forgiare morbose figure quasi industrial, per trovare sfogo in un incubo senza riparo: un punto di partenza per molte derive gotiche anni 90, a partire da quelle del reverendo Manson.
Almond e Ball si separarono poco dopo, non prima di un altro album ancora di vaglia (il malato "Last night in Sodom"): il primo per iniziare una felice carriera solista, il secondo lontano dalle scene, a parte l'ottimo progetto dei Grid. La riuscita reunion di qualche anno fa avrebbe poi ribadito il consenso e l'ammirazione per il cabaret targato Soft Cell: sempre scintillante, proprio come quella vecchia insegna a Soho.
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