Dopo il passo, onestamente falso, di "Köld" (di cui però, doverosamente segnalo e salvo la stupenda title-track), gli islandesi (sì, proprio di lissù, il posto più remoto del pianeta dopo la Groenlandia)
- Svavar "Svabbi" Austmann (basso)
- Guðmundur Óli Pálmason (batteria)
- Sæþór Maríus "Pjúddi" Sæþórsson (chitarra)
- Aðalbjörn "Addi" Tryggvason (chitarra, voce)
tornano, realizzando una sorta di doppio disco (almeno in questo modo è ufficialmente pubblicato, probabilmente per la lunghezza media delle dodici traccia, ad occhio e croce sui nove minuti), questo "Svartir Sandar", che nel mio approssimativo norreno potrebbe significare "sabbie nere", pubblicato dalla Seasons of Mist.
Ebbene, ci si accorge da subito, immediatamente, che i Raggi Solari Radianti (ribadisco, nome apparentemente curioso, ma provate a farvi un giretto là dove le terre sono bagnate dal sole per pochi mesi quasi tutti il giorno, e viceversa nel lungo, freddo, notturno inverno) sono tornati sui livelli di "Masterpiece of Bitterness": lunghe teorie, marce ossessive, metallo strascinato, ruggente, raschiato fino in fondo al barile della follia... onirico e granitico. Il sound dei Sólstafir non muta. Trova anzi, a mio avviso, una maggiore maturità, rispetto a MOB ed al devastante debutto "Í Blóði og Anda", quello dove Tryggvason urlava letteralmente nel microfono con quanto fiato aveva in gola. Perde, forse, qualche traccia di freschezza (se mai ne avesse, rispetto a MOB), di glacialità (rispetto a "Í Blóði og Anda",) ma il risultato è ragguardevole, e, inutile che lo dica, all'altezza e del tutto degno di rispetto.
L'album puzza letteralmente di disperazione. La prima sezione ha un nome: "Andvari". Quasi come quei libri di una certa levatura divisi in parti ognuna battezzata appropriatamente. Si parte con un terribile duo, la chilometrica "Ljós í Stormi" e la successiva "Fjara". L'atmosfera è pesante, ma non greve, ed il sound incede inarrestabile. I tre gradi di media dell'Islanda e quel cazzo di buio delle tre del pomeriggio dicembrino dalle parti di Akureyri si sentono eccome. A tratti ricordano gli Hilderog, sebbene con meno pompa e con quel malessere indecifrabile che la voce (o vociaccia) di Tryggvason non può fare a meno di ispirarti. Si oscilla sempre, costantemente, tra l'impressione che il nostro non sappia cantare neppure da lontano, e che quella degli Islandese sia una stirpe conoscitivamente, emozionalmente e artisticamente superiore. Brividi senza senso. Quasi lacrime.
Si procede con "Þín Orð" (La tua parola), più modesta nelle pretese, ma conforme allo stile. Fa parte del discorso con onestà, ma non mi ci soffermerei particolarmente ai fini della recensione dell'intero disco. Più caratteristica invece "Sjúki Skugginn", cantanta con voce pulita, quasi recitata. Sensibilmente atmosferica, fa da condotto verso "Æra", con dinamiche a tratti quasi operistiche, certamente ragionate e non lasciate al caso. La suddetta"Æra" riprende invece il discorso delle precedenti tracce, aprendo con l'inconfondibile, perenne rullo della chitarra zanzarosa ma pomposa, e tutto il resto. Si chiude con "Kukl", che registra la discesa della prima sezione del lavoro in una momentanea pausa prima di "Gola", e lo fa con un delicato riflettere, ondeggiante e sognante. Devono essere le due, qui, ed uno si sofferma ad osservare il mare ed il cielo tersi e luminosi nelle poche ore di luce a disposizione.
"Melrakkablús" apre "Gola", dodici minuti in cui si alternano, sapientemente anche se un po' dozzinalmente, c'è da dire, fin troppo ovvie partiture semi-acustiche, e mini-spartiti più attraenti e significativi, senza tralasciare qualche sortita verso le cinque del pomeriggio e quella disperazione penetrante cui accennavo in precedenza.
Il disco entra successivamente in una fase di stasi, sebbene dinamica: l'intermezzo "Draumfari" si lascia ascoltare, non manca di donare sensazioni piacevoli, ma sembra piazzato lì per dar sfogo ad un estemporaneo accordo ellettrico in croce; "Stinningskaldi", be'... se capissi effettivamente l'islandese potrei dirvi cosa afferma, ma di più, proprio non ho da riferire.
"Stormfari" pare continuare questa specie di telegiornale, ma ben presto Sæþórsson si risveglia dal letargo e spara qua e là qualche buona nota, ad avvertire che stanno per ricominciare a raschiare un dentro, ridestando un po' di quel fastidio di cui cominciavamo a sentire la mancanza.
Chiosano, infine, la magistrale "Svartir Sandar" - seconda solo a "Fjara" - e la interminabile "Djákninn", questa in verità su un registro un po' più basso.
In definitiva, un buon lavoro degno di ascolto e di "amicizia", soprattutto in questo periodo dell'anno, anche se a tratti lascia perplessi o addirittura insoddisfatti.
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