“Tensione, intensità, potenza, luce: i God Machine vi rapiranno l’anima”.

Così si chiudeva la recensione, entusiastica, a firma di Claudio Sorge, dell’album di esordio intitolato “Scenes From The Second Storey” dei God Machine. Mai parole furono più acute nel descrivere ciò che realmente quelle musiche avrebbero suscitato a livello emotivo, estetico e intellettivo, nell’ascoltatore. Impossibile nemmeno provare a riassumere l’esperienza tanto “effimera” (secondo la dimensione temporale) quanto “densa”, o addirittura “infinita” per la profondità delle intuizioni che il gruppo originario di San Diego riuscì a esprimere, e per la concentrazione e densità di idee e creatività: basti solo ricordare che i termini di riferimento furono tanto numerosi e diversificati per comprendere come il carattere di “indefinibilità” fosse il dato in fondo dominante. Un genio creativo (inteso secondo l’accezione romantica, ma attualizzato alla contemporaneità) “a tutto tondo”, o “a 360 gradi”.

Dopo la tragica conclusione di quell’esperienza, nel 1994, vicenda dolorosissima che ha lasciato una evidente ferita nell’animo di Robin Proper-Sheppard, restò un silenzio senza vento paragonabile al deserto ritratto in una delle loro canzoni. L’interruzione del silenzio, a sorpresa, avviene con la concezione del progetto "Sophia": collective elettro-acustico, di vari musicisti, tra cui chitarre acustiche, elettriche (electric e pedal steel guitar), batteria, pianoforte, tastiere e archi. Lontani almeno in apparenza dalle chitarre sature, dal metal concettuale, dai riferimenti all’art rock, dalla struttura circonferenziale e spiraliforme, avvolgente e spaziale delle composizioni, in cui drumming ipnotico, serrati giri di basso e timbrica estremamente duttile e acuta/sussurrata del cantato caratterizzavano in sintesi una declinazione melodica del noise rock, una suggestione imponente e post-apocalittica, i Sophia si collocano in un terreno nuovo, a sé stante e tuttavia non scevro dal raffronto con i referenti. Intimiste e prevalentemente acustiche, con un’andamento in cui il climax si raggiunge al momento dell’ingresso degli archi e del piano, dei suoni dolcemente elettrici, queste ballads ritraggono un gruppo e il suo leader, Proper-Sheppard, come un Cantautore nel contesto di una “rock-band”; artefice di vera e propria Poesia in Musica, riflessivo, dolente e con il coraggio di mostrare il lato più intimo.

Rispetto a bands come Red House Painters, Smog e Mazzy Star, in vario modo autori di languide ballate statiche e “avvolte nella nebbia”, tendenzialmente affini ad una concezione impressionistica del rock, i suoni che formano questi delicati quadri che appaiono “finestre sull’anima” del loro Autore, appaiono più nitidi e maggiormente variegati rispetto ad una lentezza che caratterizza parte di certi canoni stilistici e “di genere”. Qui la musica, sembra venire impiegata come duttile strumento espressivo di emozioni il più possibile non-mediate. La limpidezza e il nitore dei suoni acustici fanno venire in mente il Nick Drake più luminoso, gli Oasis più acustici ed introspettivi e certi Radiohead (periodo “Ok Computer”), sulle note disegnate da questi arpeggi la voce (per usare la splendida espressione di Alex Franquelli) “sembra posarsi cadendo dall’infinito”, mentre per trovare una “definizione” del talento, sconfinato, di Proper-Sheppard forse l’unico paragone sono i primi Velvet Underground.

“Fixed Water”, come il titolo suggerisce, offre un’istantanea dell’acqua colta nel suo moto ondoso ripetitivo, una sorta di “movimento statico e apparente”, metafora esistenziale di ciò che “passa senza passare”, di ricordi e immagini così vividi da poter al massimo galleggiare alla superficie dell’anima. Ognuna delle 10 canzoni qui racchiuse, dalla allusiva “The Death Of A Salesman” alla sussurrata e amara “Is It Any Wonder?”, fino al vertice assoluto, forse insuperabile di “So Slow”, da l’impressione quasi visiva di un’attesa dell’alba, che giunge con l’ingresso di piano ed archi, ad illuminare l’orizzonte esistenziale e interiore, e riscaldare l’aria che ne riempie le distanze che ci separano. Immaginate “Yesterday” dei Beatles suonata dai Coldplay… o dai Codeine, come preferite.

Sophia: forse il tentativo di concludere l’opera lasciata in sospeso dai God Machine, forse, e più realisticamente, un “secondo capitolo”, che sarà seguito da altri, un capitolo di una storia in cui, come ebbe a dire Robin Proper-Sheppard a proposito delle sue canzoni “come in un film di Michelangelo Antonioni, c’è sempre un finale aperto”.

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