Spesso la propaganda tendeva a distorcere la verità. La appannava, le occludeva le possibili vie per emergere. In qualche caso la esasperava o la alterava. Sono, però, tanti i casi in cui la propaganda riportava la verità per filo e per segno. Attraverso bellissimi manifesti necessariamente carichi d'orgoglio e con evidenti scritte che dovevano colpire la vista prima dell'immagine.

Inverno del 1941. Le armate tedesche, dopo aver costretto all'assedio Leningrado, volsero, nella seconda metà di ottobre, verso la liquidazione di Mosca e la presa del Cremlino. Hitler era troppo convinto della vittoria. Ma non aveva considerato il fatto che trapelasse un pizzico di velleità nelle sue decisioni.

Il manifesto "Otctonm Mockby!", ossia "Difenderò Mosca!" venne stampato e incollato in ogni angolo della capitale sovietica. La scritta che funge da piedistallo ad un soldato dell'Armata Rossa con espressione convinta e tenace, fungeva da incoraggiamento alle centinaia di migliaia di cittadini moscoviti, inglobati nella "guerra totale" contro la Germania di Hitler. La risposta della popolazione all'invasore nazista fu formidabile e sanguinosa e non resta altro che plaudire al vigoroso patriottismo russo che difficilmente trova eguali così eccezionali. Il plauso deriva dal sacrificio di gente che nel giro di vent'anni è stata martoriata dalla guerra civile, dai crimini dell'NKVD partoriti dalla follia di Stalin e tutte le violente ferite inferte da un mostro che ha preferito imbevere nel sangue lo spirito nobile di un'utopia.

Nonostante tutto, l'opposizione al nemico fu vibrante, orgogliosa ed efficace e Stalin, era perfettamente consapevole del fatto che il popolo si sarebbe sacrificato fino all'ultimo punto di luce visibile. Ma non per lui. Gli stessi soldati, spesso incastrati in una morte inevitabile, lo affermavano, inghiottiti dal fango delle trincee. La Madrepatria venne difesa con il patriottismo e, paradossalmente, col riparo spirituale nell'esistenza di Dio. In una nazione in cui l'ateismo era definito come religione di Stato. Furono tantissimi i militari che scampati alle pallottole tedesche venivano compensati dal fuoco amico dell'NKVD, in quanto non era ammesso alcun tipo di reticenza, diserzione, paura. Combattere fino alla morte senza possibilità di appello. Così come furono tantissimi i civili male o per nulla addestrati che si opposero al nemico con il solo vigore di un petto apparentemente d'acciaio.  I laceranti versi di una poesia di Jurij Beljas ne testimoniano la pericolosa franchezza: per dirla onestamente/nelle trincee l'ultima cosa a cui pensavamo/ era Stalin/nel nostro animo era più presente Dio/Stalin non ebbe alcun ruolo/nella guerra dei nostri soldati.

Alla notizia di un imminente attacco tedesco la mobilitazione fu totale. Uomini, donne, anziani, soldati e un piccolo aiuto del temibile Generale Inverno. E il manifesto, con tanto di nevischio e un cielo tetro disturbato dalle minacce degli Stukas, incarnava perfettamente il tempo e l'atmosfera plumbea dell'epoca. Le donne, vere leonesse della Grande Guerra Patriottica, offrirono una efficace manodopera nella costruzione di munizionamenti e nello scavo di lunghissimi e profondi fossati anticarro che compromisero l'avanzata delle divisioni corazzate. Altri protagonistifurono i terribili razzi "Katiusa", il cui rumore sinistro provocato dallo scagliarli, indusse i tedeschi a ribattezzarli come "Canne dell'organo di Stalin".

La metropolitana di Mosca, una delle poche cose buone fatte da Stalin, accolse centinaia di migliaia di cittadini al riparo dai possibili bombardamenti nemici. I tram, necessariamente inattivi, vennero imbottiti di sacchi di sabbia e posti a difesa degli edifici principali. Le pareti di altri palazzi furono ricoperti da muraglie di sacchi e balle di paglia. I corvi di ferro che bruciano le nuvole alla sommità del manifesto, mentre volano minacciosamente sulla torre del Cremlino, furono ingannati da una azzeccatissima mossa strategica. La Piazza Rossa fu letteralmente pavimentata con blocchi di fango e costellata da decine di casupolette di legno tirate su per l'occasione. Stessa sorte toccò al Cremlino e alle guglie appuntite della Cattedrale di San Basilio, mimetizzati anche da sterpaglie e balle di fieno. I piloti della Luftwaffe incaricati del bombardamento, non riconoscendo quella porzione di territorio, infedele rispetto a quella riportata sulle aerofotogrammetrie, si preoccuparono di non sprecare bombe per quella che appariva come una desolata palude decorata da una distesa di capanne avvolte dalla "rasputisa". Fu così che il Cremlino e tutto l'ambiente circostante venne miracolosamente risparmiato da un sicuro abbattimento.

Mentre la popolazione cominciò a sfollare, Stalin decise di mettere al sicuro il governo trasferendolo in blocco. Ambasciate, ministeri, uffici, famiglia e biblioteca dovevano essere trasferiti a Kujbysev, a più di 800 km a est di Mosca. In un'altra località della Siberia, la sperduta Tjumen, venne invece trasferita la salma di Lenin. Ad una riunione del Politburo venne convocato il custode del mausoleo e attrezzato di ogni mezzo utile alla conservazione dell'imbalsamatura. Venne costruito un vagone ferroviario speciale dotato di ammortizzatori e cella frigorifera che fu agganciato ad un treno mimetizzato con rami d'albero. Lenin fu sistemato in una scuola zarista e tenuto d'occhio da un'equipe di scienziati e soldati di guardia.

Mosca fu difesa, ma furono quasi 700.000 le vite umane sacrificate solo fino al contrattacco.

Onore a chi ci credeva veramente. E furono in tanti.

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