"La Morte degli Artisti"

Quante volte si devono agitare i sonagli
e baciare la tua fronte bassa, triste caricatura?
Per azzeccare il mistico bersaglio,
quante frecce dovrò sprecare, o mia faretra?

Consumeremo il cuore in complotti sottili
e sfasceremo più di una salda armatura
prima di contemplare la grande Creatura,
la cui brama infernale nel pianto ci sprofonda!

Quei che il loro idolo resta per sempre ignoto,
scultori maledetti, segnati da un oltraggio,
che in petto e sulla fronte si daranno il martello,

con la sola speranza, oscuro Campidoglio!,
che la Morte, levandosi come un sole novello,
faccia sbocciare in loro i fiori del cervello. (Charles Baudelaire)

ABBA(n)DON(ate) ogni speranza o voi che entrate! In duemila anni, dopo il privilegio di avere avuto Gesù, 'sta cazzo "d'umanità" avesse minimamente applicato le dritte del Cristo. Al contrario ha prodotto solo melma su melma che è andata a nutrire sin la parte più bassa e mostruosa dell'inferno, il settimo strato, quello dove troviamo la corte del primo angelo caduto, il più apocalittico, il più tutto, il meno conosciuto e il meno pronunciato ma il più terrificante, tanto che le altre stratificazioni dei demoni hanno terrore loro stessi di quella zona.

Il miasma prodotto è stato talmente tanto che ha facilitato la risalita dello "sterminatore" per forza d'inerzia da galleggiamento sollevante. La merda "ascensore dall'inferno" ha richiamato un'entità che mai si sarebbe dovuta neanche pronunciare.

Come una Trinità capeggia in cielo, la stessa cosa è con gli inferi con la loro Trinità sotterranea. Per capirsi però è che con gli altri due inquilini della fornace, Lucy & Satanino, rimane sempre un margine di gioco, si fa nero cabaret pur rimanendo nella narrazione della dannazione. Col terzo no... Niente patti, niente inciuci, niente di niente, quando viene richiamato succede un casino tale che un culo per cacarsi letteralmente sotto non basta più.

Giocate, giocate col fuoco che se con gli altri due ci si poteva provocare oneste scottature inevitabili nell'accettazione di quei "contratti", col terzo arriva una bruciata che a confronto un'eruzione vulcanica risulta una doccia gelata.

L'atmosfera distaccata di questo lavoro degli SPK è "l'attesa prima della tempesta", dove ti dà il solo tempo di andare a comprare quanti più pannolini riesci a trovare, prima della Cambogia a venire, sempre se hai la sensazione di aver marcato male (ma anche benino) in questa serie di reincarnazioni. Altresì per chi ha sedimentato polvere di stelle, avvicinandosi all'armonia del creato, l'ascolto risulterà "simpatico" nel constatare l'osservazione distaccata di tsunami ciclici che tutto sommato non gli cambiano niente, essendo stanziati su un'altra frequenza.

Dai, le diverse vibrazioni non si incontreranno e dall'alto della montagna l'inondazione puliscitutto si percepirà carezzevole nel sacrosanto bisogno di ricominciare tutto "diversamente".

La mancanza di sensazionalismo del disco è una prova che lo scontro è al livello psichico. La pacata adombratura mortifera inganna un'aspettativa di caos rumoroso, ma è proprio l'evitare il "tanto rumore per nulla", di un industrial che erroneamente associamo al battere sulle pentole di casa, il punto di forza degli (chi l'avrebbe mai detto) australiani dove la colonna sonora di una dark age d'oggigiorno stimola eclissi di SePpuKu incoscienti, indi la narrazione orrorifica diventa impalpabile per la grossolana umanità che si è data in pasto al padrone sbagliato. Non si è capito in che guai ci si è andati a cacciare.

La resa impersonale, ferma, impassibile dei componimenti musicali ci suggerisce la conquista di un'aura che può scandagliare l'orrore passato, presente e a venire, con una padronanza nel saper fermare i pensieri a comando dove intuiamo che l'obiettivo è maestoso nell'indirizzarsi verso una dissociazione dalla violenza della storia, presenziando un revisionismo sulle bontà di facciata indotte e puntando decisamente su un impersonale che potrebbe risultare cinico se usassimo la considerazione come strumento di giudizio.

Viene fuori una nebbia frizzantina nel tenere botta a un libero arbitrio che nutre l'inganno della vita. Il pathos grondante sofferenza concreta, spuria da alibi consolatori, è spiazzante per la sua pienezza nel rivelare tutte le possessioni di cui siamo costantemente in balìa. Confortante è l'onestà del tappeto sonoro che evitando una comunicazione verbale ci risparmia la costruzione del filtro delle menzogne.

Lo scoperchiamento delle nostre miserie sintonizzate sul "Dio lo vuole!" è rasserenante nel tentativo d'esorcizzazione di tutta questa violenza presente costantemente nell'aria, dove l'effetto boomerang dell'incomprensione premia i "carbonari" con ulteriori umiliazioni, gogna compresa. Ma la sedimentazione di questa sofferenza cosciente fa fiorire un'estetica trascendente dove la magnificenza si sposta dal tangibile all'invisibile.

Il risultato, trasmutato in musica, è la viva coscienza di chi è consapevole di essere immerso in un mondo dove la perdita di senno è diventata consuetudine e dove le persone giudiziose vengono perseguitate da un'inquisizione che s'arrabbatta sempre più nel creare sofferenza ma non sa più che pesci pigliare nella sua mancanza di discernimento, dandosi la zappa sui piedi evocando "quello lì".

Ne vedremo delle belle, ma intanto date un ascolto (col terzo orecchio sarebbe meglio) a questo monolite che sprizza esoterismo e profuma di rose mistiche: "Sarà quel che sarà".

Chi nun more s'arivede...

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