Chissà se oggi vivessimo il cinema (attori, registi, operatori ecc.) di allora sotto l’occhio della critica odierna e viceversa? Forse, nel primo caso gli artisti avrebbero ottenuto il giusto riconoscimento che sovente, giunge, con un tempismo di valore olimpionico, post-mortem, con percentuali più alte registrate il giorno dei funerali.

Nella seconda ipotesi, molto probabilmente nessuno investirebbe, produrrebbe, dirigerebbe, surriscaldati pattumi natalizi et/aut inenarrabili fetenzie realizzate per trasferire su pellicola, a forza per giunta, le penose battute televisive del comico (?) di turno.

Nel 1951 una buona parte del Grande Cinema Italiano purtroppo si trovava spesso ad intavolare una battaglia contro armate di indegni critici moralisti e fu così anche per il prestigioso tandem Steno-Monicelli, più volte centrato dagli strali al curaro di questi ultimi. Se poi pensiamo che nella commissione censoria del tempo gli alti scranni erano occupati da Giulio Andreotti e il nostalgico fascistucolo Annibale Scicluna Sorge, direi che a frutto di deiezioni canine eravamo messi benone.

Comunque, ad ogni modo non c’è lustro in una coppia di registi se non si dirige una sontuosa coppia di attori: Totò e Aldo Fabrizi. Il primo, il ladro Ferdinando Esposito, elenca i giorni raggranellando gli incerti proventi di varie truffe e il secondo, il brigadiere della polizia Lorenzo Bottoni, ligio nell’umanità, per ovvio dovere obbligato a prevenirle e reprimerle. Le parallele dei protagonisti si incontrano durante la consegna di pacchi contenenti beni di prima necessità destinati ai proletari. Il responsabile della cerimonia, un benefattore americano, è stato truffato da un Totò per l’occasione indossante i panni di una guida turistica ai Fori Imperiali, che gli ha rifilato un fasullo doppio sesterzo trovato tra una colunnum e la tomba di Cristoforo Colombo. Basta che gli sguardi di truffatore e truffato si incrocino e il corpulento brigadiere, in loco per formale servizio di vigilanza, deve richiamare all’ordine eroiche resistenze fisiche per inseguire il ladro in una corsa tra le auto di un traffico ancora sterile e le baracche vergini di una sincera periferia romana che profuma di Pasolini.

In questa sequenza è difficile definire chi dei due è il più geniale:”Aiut’ son’ cadut’!” - “…e riarzate!” oppure, tra un cane aizzato e una impervia fanghiglia: “Fermateee! Brutto…”“Non cominciamo con le parolacce eh?” – “Questo è americano! Che figura ce famo all’estero!” e magari, tra un respirone affannoso e una cura per il fegato: “…ormai te sei fermato! Sei preso! Vieni qua!” – “A chi? A chi? Tu vieni qua! Sei tu che mi devi arrestà!”. Totò verrà acciuffato ma riuscirà a fuggire e per legge un poliziotto che si lascia scappare un “detenuto” rischia il processo e la radiazione dal Corpo. A meno che, in una piccola guerra umana più di fatto che di nome, dove il vincitore non vorrebbe prevalere perchè è il perdente che si è lasciato sconfiggere, un innaturale buon senso compirà il miracolo.

Imbastito da una formidabile squadra di sceneggiatori (Brancati, Flaiano e Maccari possono bastare?) su un soggetto di Piero Tellini che ha avuto il privilegio di sventagliarsi con le sottili foglie del fuscello di Cannes, il film donerà a Totò, che veniva considerato addirittura “guitto” dai giudicanti del piffero, il primo riconoscimento internazionale nelle sembianze di un nastro argentato. C’è però da dire che anche Fabrizi avrebbe meritato qualcosina. Tra gli altri interpreti un giovanissimo Carlo Delle Piane, la spalla adamantina di Mario Castellani, il caratterismo eccellente di Ernesto Almirante, la purezza acerba di Rossana Podestà e due leonesse di cui non bisogna dire altro: Ave Ninchi e Pina Piovani. La fotografia, di un bianco e nero affascinante, esteso, spoglio è di Mario Bava, mentre la colonna sonora, una indimenticabile scalinata per archi e fiati, è composta dal Gran Maestro Alessandro Cicognini.

Ah, in merito alla censura, Il malinconico fascistello si sarebbe irritato perché avverso alla guardia di Pubblica Sicurezza che aveva dovuto compiere l’esecrando atto di “compromettersi” con un malvivente. Aldilà delle figure di Totò e Fabrizi, analizzando il contesto, il poliziotto ha dimostrato di saper fare il proprio dovere in una corsa (ancora?) contro il tempo, senza ricorrere (bastaaa!) a metodi cruenti e con un pizzico di astuzia (e di fortuna) tipiche del vecchio marpione. E senza la complicità di alcuno. Anche il ladro ha fatto il suo con gli stessi metodi pur se da una scuola di pensiero diametralmente opposta.

Il ladro cerca di scappare fino all’ultimo, così come il poliziotto deve fino all’ultimo non lasciarselo sfuggire, pena una fine indecorosa targata Stato. L’espediente dell’intromissione delle famiglie ignare potrebbe apparire anche abbietto e Totò se ne accorge rivendicando il presunto furto di affetti. Però, quando anche un ladro possiede un cuore, presto si capisce di stare dalla parte sbagliata e che per quanto possa sembrare paradossale, il carcere è giusto anche in cambio di qualche cartolina da spedire a casa per evitare temibili emersioni di verità.

Quindi, il giudizio espresso dal putrido rigurgito del littorio non è scevro da macchia mendace plurima. Uno che di compromessi ne avrà fatti anche di più infimi e magari ha avuto il culo di essere stato amnistiato da Togliatti. Eia, Eia, Vafancù!

Film bellissimo da non dimenticare mai.

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