Il titolo di quest’album lo vivo come mendace. Troverei più appropriata la denominazione “Blues Without Feeling”.
Beninteso, Steve Hackett è un grande, anche per me. Entrato nei Genesis in punta di piedi, passati sei anni e sei dischi con loro si sentiva ampiamente sottostimato ed emarginato dai boss compositori Tony Banks e Mike Rutherford; gli stessi che qualche anno dopo si sarebbero messi nelle mani del compagno d’avventura Phil Collins, il più bravo di loro a far successo e soldi colla musica.
Così se n’era andato, nel 1977, e da allora questo chitarrista ci tempesta con una sequela divenuta assai corposa di opere progressive, picchiettate però ogni tanto da lavori diversificati, ad esempio saggi di chitarra classica, oppure episodiche concessioni al pop rock.
Ma la presente sua digressione nel blues, pubblicata nel 1994, mi risulta come la sua iniziativa più opaca di carriera. Per qualche ragione imprevedibile dato il tipo di musicista, ma comunque encomiabile, il nostro Steve aveva scelto sin dall’infanzia, come secondo strumento musicale della sua vita. l’armonica a bocca: un congegno meraviglioso, facile da strimpellare ma difficile da suonare bene, un po’ come la chitarra stessa.
Ed in effetti Hackett la tecnica per suonare l’armonica l’ha appresa molto bene. Il problema però è il suo atteggiamento blues. L’armonica è perfetta per questo genere musicale, a sua volta facilissimo da “strimpellare”, epperò impossibile da raggiungere in una forma convincente se non se ne possiede l’animo, l’atteggiamento, il feeling appunto.
E Hackett non ha niente del bluesman. Non solo quando vi si applica coll’armonica, ma pure colla sua virtuosa chitarra, non sapendo creare quel tipo di sfumature, di atmosfera che per il blues sono l'essenza. Per quanto si ingegni a prendere gli accordi adeguati, a “piegare” le note come tecnica insegna, gli manca proprio il respiro, il calore, il trasporto del blues.
E’ uno di quei valenti musicisti che però non sono/erano plausibili in chiave blues (la maggior parte dei quali giustamente non ci ha quasi neanche provato…). A chi sto pensando? A Bob Fripp, Paul McCartney, Toni Iommi, Glenn Hughes, David Bowie, Van Halen… Hackett invece ci ha provato in questo disco, che è da bocciare: non avvince, non manda buone vibrazioni, risulta scolastico e freddo, in una parola inutile, quantomeno superfluo.
Hackett ha sviluppato tante tecniche sulla chitarra, ma quella più importante per il blues, il vibrato (con le dita, non con la leva), no. E la cosa si riflette pure sul suo approccio all’armonica, ugualmente con qualcosa di meccanico, scolastico, didattico, superficiale.
Il blues, più che un genere, è uno stato d’animo. Tutti sono capaci di accostarsene, spesso sono tre accordi, non certo tutti di raggiungerlo. Fra cui Hackett. Questo disco, strutturato in sei o sette composizioni originali del maestro Steve più un pugno di cover di qualcuno dei vecchi bluesmen americani (Freddie King, Walter Jacobs, Nick Gravenites…) non funziona. Provare per credere.
Per rifarmi le orecchie vado ad ascoltarmi Robin Trower, un londinese come Hackett che invece nel blues ci sguazza ammirevolmente.
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