E inevitabilmente siamo qui a parlare di vecchia guardia.

Perché, cosa possiamo aspettarci da due vecchi leoni?

Le teorie le conosciamo, per averle lette mille e più volte. E mille e più volte averne discusso e litigato. L'intransigente modernista a tutti i costi dice: "ma perché non se ne vanno in pensione?"

Un altro, un po' meno modernista e vinto dalla vita che avanza, con tutti i suoi impegni, le sue paturnie, i giramenti di palle, lavorofiglimoglimorosedipendenticolleghi...., non ha voglia di cercare il nuovo, ed è attratto da quel vecchio Hammond e da quella conosciuta Stratocaster.

Dunque, spesso, si scontrano un'operazione nostalgia pura con un'operazione modernista altrettanto pura, entrambe talebane o quasi.

Io, chi mi legge lo sa, credo che la musica cosiddetta leggera non faccia eccezione rispetto alle altre cose del mondo, e che sia, conseguentemente, destinata ad avere un inizio, uno sviluppo ed una fine. Come tutto ciò che ci circonda, ad iniziare da ciò che vediamo periodicamente allo specchio.

Dunque, personalmente non vedo altri Clapton in giro, come non vedo altri Hendrix o Gilmour, per stare nei chitarristi. E questo perché chi ha iniziato, o fortemente sviluppato, un genere, solitamente lo fa meglio degli allievi.

E, poi, ritengo che il Blues, probabilmente destinato anch'esso alla sua normale fine, faccia un po' più fatica degli altri generi, a mollare. A gettare la spugna. Tiene botta perché è fatto di sangue.

È un po' come se il Blues, o meglio i Blues, facessero talmente parte dell'animo umano da essere parte di esso finché lo stesso animo ci sarà, ovvero finché ci sarà l'umanità.

Ma forse è soltanto la mia solita masturbazione mentale.

Però nel Blues vedo ancora (soprattutto nei pochi grandissimi ancora viventi, ma sostanzialmente anche nei nomi nuovi, giovani e sempre mooolto americani e poco esportati) una freschezza che nel rock inteso in senso lato non riesco più a scorgere.

Indubbiamente non esiste più rock-blues contemporaneamente colto e di massa, tra le nuove guardie.

Qui, venendo al disco, non c'è ovviamente traccia di ciò che non ci potremmo facilmente immaginare. Ma c'è il solito grande piatto cucinato come ben poche volte prima.

Ci sono Eric Clapton e Steve Winwood che cantano e suonano, con le loro voci, l'una roca, bella e acutissima, l'altra più scura e più blues, con i loro strumenti, così unici ed identificabili. C'è un manipolo di strumentisti con prevedibili controcazzi. Repertorio ovviamente tratto dall'esperienza Blind Faith del 1969, con qualche extra hendrixiano.

E il discorso, amici miei, è tutto lì. C'è chi prova piacere e chi invece no. O non ci prova, perché tanto pensa di sapere cosa c'è dentro la scatola.

C'è chi ama il blues e chi no (onestamente non credo possa esistere persona che, una volta amatolo, possa aver smesso...).

E ci sono questi due quasi vecchietti che a sentirli hanno l'energia dei vent'anni, con la sapienza e la precisione, anche strumentale, della maturità.

Insomma, c'è il prodotto che ci si aspetta, ma al massimo della qualità, sian interpretativa che grettamente materiale (il disco "suona" benissimo).

Oltretutto parrebbe non esserci molta post-produzione, tenuto conto di qualche bella imprecisione e di qualche piccolissimo difetto di bilanciamento di suoni (raro, ma c'è).

Cioè: i due vecchi figliuoli hanno suonato proprio bene, in questo tour evento che ovviamente ci ha snobbato, tutti presi come siamo a riempir le piazze ogni volta che una stronzata come amici o x-factor arriva ad ammorbare una delle belle piazze italiane, o riempir sansiro ai gorgheggi della pausini o ai gargarismi dei negramaro.

Noi viviamoci il nostro bel degrado socioculturale (non parlerei di analfabetismo di ritorno, perché per poterne godere dovrebbe prima esserci stato l' "alfabetismo d'andata"...), mentre al di là dei monti, dell'oceano e della Manica sembra proprio che sappiano ancora che cos'è la Musica.

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