Steve Wynn ha dato alle stampe la sua autobiografia. O meglio, la prima parte della sua autobiografia: “Non lo direi se non fosse vero” (Jimenez, 2025, traduzione di Gianluca Testani) si ferma al 1988, è evidente che, prima o poi, arriverà un seguito. A proposito: sapete perché al libro è stato appiccicato cotanto titolo? Io no, lo confesso. Di certo troverete una spiegazione o un qualche indizio disseminato chissà tra quale pagina del volume, comunque sia mi è sfuggito. Forse pensavo a delusioni, a grandi imprese, a una thailandese. O, più probabilmente, a quanto era figa la musica dei Dream Syndacate. Quella miscela di rock e psichedelia amalgamata dalla band californiana, quel suono, chitarroso e muscolare, entrato dritto nelle nostre viscere sin dagli albori degli anni ’80 del secolo scorso. Un suono irresistibile, ça va sans dire.

Wynn è irresistibile anche quando si racconta. Ed è persino capace di guardare oltre il proprio ombelico. Certo, siamo alle prese con un memoir, ma gli orizzonti rimangono aperti. “Non lo direi se non fosse vero” si immerge a corpo morto in una scena che a un certo punto rompe gli argini e supera gli stretti confini della California. Il Paisley Underground si fa verbo e i Dream Syndacate si incaricano di narrarne le gesta. Assieme a un folto gruppo di altre band smandruppate. Leggasi Thin White Rope, Green on Red, Bangs, che presto cambieranno la propria ragione sociale in Bangles. L’autore racconta di sé ma non dimentica con chi è cresciuto, con chi ha fatto comunella (guai a non citare anche i R.E.M.). Poi, chiaro, c’è Steve Wynn. Che compone la prima canzone a nove anni ma non pensa, almeno durante l'adolescenza, che suonare possa offrirgli un futuro più o meno certo. La vita prova ad apparecchiargli altre due opzioni: giornalista sportivo, oppure commesso di negozio di dischi. A proposito di quest’ultima attività, Wynn narra di avere avuto un cliente eccellente: Sherman Hemsley, il George della popolare serie “I Jefferson”, appassionato niente popò di meno che della PFM!

Il libro è pieno di aneddoti come quello di cui sopra, di tante piccole e grandi curiosità. Ma, soprattutto, Wynn decide di aprirsi, di confessare le proprie debolezze: eccolo pronto a confrontarsi con i problemi con alcool e speed, con le incomprensioni con il resto della band e le etichette discografiche. Eccolo fornire particolari su di una vita vagabonda, su di una famiglia spezzata ma non per questo lontana, su di un incontro fondamentale, quello con Alex Chilton, o con una giovanissima, ma già piena di talento, Hope Sandoval.

Sembra che il buon Steve abbia passato l’esistenza a correre, a cogliere al volo occasioni, a cercare di rendersi migliore, come uomo e come musicista. Fino ad affermare che “la razionalità, l’esperienza e la professionalità possono ostacolare il processo e mettere a tacere la musa”. Una dichiarazione di intenti, che descrive meglio di quanto non si possa fare lo spirito di un movimento chiamato Paisley Underground. Del quale Wynn è stato uno dei protagonisti principali. Un libro che merita di essere letto. Non lo direi se non fosse vero.

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