[Contiene anticipazioni]

Il nuovo film di Spielberg è un mattone, indubbiamente, scritto e girato magnificamente. 140 minuti di dialoghi spesso fitti e pieni di dettagli e sfumature politiche davvero molto fini. La gente in sala, reduce dai banchetti natalizi, avrà sicuramente sbadigliato, ma ciò non toglie che l'opera del celeberrimo cineasta sia di altissimo livello.

La sceneggiatura è stata scritta dai fratelli Coen e ciò spiega molte cose. I dialoghi sono dettagliati ma non cavillosi, fitti ma sempre ben chiari, seri ma con svisate ironiche necessarie ad alleggerire i toni. Ovviamente il film parla un linguaggio politico, serio, sostenuto, ma non diventa mai freddo e distante. La scrittura è calibrata davvero al millesimo per risultare credibile e precisa senza perdere l'empatia del pubblico.

Anche il lavoro registico è sostanzialmente impeccabile. Spielberg è in stato di grazia e gira con la saggezza e l'eleganza dei grandissimi. La messa in scena trabocca di sapienza cinematografica ed è esaltata da inquadrature e movimenti di camera semplicemente magistrali. Raccontando la storia principale vengono snocciolati con generosità tanti dettagli collaterali che arricchiscono un quid già sostanzioso. Anzi, sono i dettagli a risultare decisivi in un ordito austero come questo, perché gli danno vitalità. E quindi mentre l'avvocato Donovan discute con la controparte vediamo che chiede altro whiskey e sappiamo il perché (è raffreddato); il giudice Mortimer mentre discute con Donovan in casa sua bisticcia anche con il suo papillon. I dettagli si fanno ancor più decisivi quando hanno un portato concettuale: nel finale Donovan vede dei ragazzi scavalcare una rete, ed immediatamente lo spettatore rivede la sequenza presso il Muro di Berlino. In pochi secondi il regista dà rappresentazione alla libertà americana in contrapposizione alla repressione sovietica.

Contenutisticamente, la prima parte è stupenda e aperta a interpretazioni anche attualizzanti sulle incoerenze americane. Per difendere i propri valori dal Comunismo, le autorità americane vengono meno nel rispettare proprio quei principi che caratterizzano – o dovrebbero caratterizzare – l’Occidente. La seconda metà segue invece binari più canonici, pur facendolo con grande eleganza. Dispiace solo per il finale un po' trionfalistico, che mette in ombra la critica invece affilata al sistema di valori ottuso della CIA. Va bene, Donovan è un eroe, ma da uno Spielberg così raffinato ci si poteva aspettare un elogio meno gridato, come nel resto del film.

Tom Hanks è semplicemente perfetto nei panni di Donovan, ma la prova di Mark Rylance nei panni di Rudolf Abel è ancora meglio: l'attore ha colto davvero appieno l'atteggiamento da tenere, quello della spia che deve dissimulare tranquillità e convivere con il pericolo. I suoi sguardi distanti sono davvero stupendi. Nel cast ci sono poi tante “brutte facce” adatte al tipo di vicenda: su tutti Mikhail Gorevoy nei panni di un dirigente KGB. Anche questa scelta dà credibilità alla messa in scena.

Bella la fotografia sgranata, ma in alcuni passaggi si eccede. Così come i cromatismi che esaltano il grigiore sovietico: ci possono stare, ma quando Donovan torna in America i colori diventano troppo sfavillanti. Peccatucci veniali che si possono perdonare, ma si potevano anche evitare.

Insomma, per gli amanti dei film su dispute legali e trattative politiche complesse, Il ponte delle spie sarà una manna. Nel suo genere è pressoché perfetto, ma è comprensibile anche l'accoglienza tiepida che ha ricevuto in America. Spielberg non fa nemmeno finta di ammiccare al pubblico: titolo particolare e poco accattivante, il non più giovane Hanks come protagonista, un argomento politico datato. Steven si cura poco di piacere alle masse, che in passato lo hanno portato in trionfo svariate volte. Segno di maturità completa o incapacità di suscitare nuovi entusiasmi su vasta scala? Il prossimo film, The BFG, dirà qualcosa in merito.

7.5/10

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