E' sempre un piacere assistere a della buona musica nella confortevole cornice di Piazza del Duomo, teatro di un Pistoia Blues sempre meno blues. L'idea di vedere sullo stesso palco Peter Hammill e Steven Wilson mi elettrizza non poco, e mi risparmio gli inevitabili commenti sul senso della disposizione dei gruppi nella serata, fuori da ogni logica e nozione di storia della musica, dove assistiamo al paradosso in cui un buon artista contemporaneo, derivativo come non mai, si vede aprire il set da una band che ha fatto la Storia della Musica, e a cui egli stesso si ispira assai spudoratamente.

Polemiche a parte, il vero dettaglio (ma poi nemmeno tanto dettaglio) che rompe il cazzo è l'idea balzana dei posti a sedere. Ora, dico io: le due band saranno anche promotrici di una musica sofisticata, e di certo stasera sul palco non saliranno gli Slayer, ma Diavolo!, pur sempre di rock si parla! Preferisco pertanto rinunciare alla mia economica posizione in tribuna (che fra l'altro mi avrebbe permesso di assistere all'evento ad una distanza spiacevole) per guadagnare un posto in piedi tranquillo e prossimo al palco al lato destro della platea, non lontano dalle birre. Ovvio che un pubblico seduto ed ingessato, che deve limitare il proprio entusiasmo al semplice battito delle mani, influenzerà in qualche modo la serata.

Complice l'alto costo dei biglietti, altra nefasta tendenza degli ultimi tempi, l'evento non registra nemmeno il sold-out, i biglietti sono ancora in vendita ai box a concerto iniziato e le tribune, sia quella posteriore che quella laterale, non sono straboccanti di avventori.

Che dire: non si rockeggia più come una volta.

Chiusa la nota polemica, passiamo alla sostanza, e stasera ne avremo in abbondanza. Per me è la prima volta con i Van Der Graaf Generator, da sempre inseguiti, ma mai agguantati dal vivo. Gli storici progster inglesi si presentano in formato ridotto all'osso, nell'ormai consueto trio composto dai tre membri storici Peter Hammill, Hugh Banton e Guy Evans, che – aggiungo io – bastano ed avanzano.

La scena che mi si para davanti ha del surreale: Peter Hammill, seduto alle tastiere, a sinistra, in posizione frontale rispetto al compare Hugh Evans, a destra, anche lui di lato rispetto al pubblico, dietro al suo mega organo. Al centro, fra i due, la figura imponente del maestro Guy Evans, dietro alle pelli. Vedere questi tre umili vecchietti (il tempo con i nostri, e in particolare con Hammill, non è stato clemente), questi signori che hanno scritto pagine importantissime della Storia della Musica, costretti nei cinque metri quadrati gentilmente concessi da Wilson, fa quasi tenerezza. Ed anche un po' di rabbia, dato che i tre sono in forma splendente ed un allestimento più consono al loro status ed un impianto più potente avrebbe giovato sicuramente alla loro performance, comunque brillantissima.

A stupirmi è soprattutto la voce di Hammill (classe '48, mica cazzi), potentissima, chiarissima, impeccabile. Più che cantare, il Nostro si spertica in un eclettico recitato, che va ad enfatizzare l'impostazione teatrale che negli anni è divenuto il suo trademark: in una parola, emozionante. Spesso seduto concentrato sulle partiture di piano delle sue ballate leggendarie, a volte in piedi imbracciando la chitarra, è inevitabilmente Hammill il centro catalizzatore dell'attenzione di tutti i presenti. La sua figura esile, finissima (non proprio azzeccata l'idea di indossare una T-shirt bianca enorme, con l'inevitabile effetto “attaccapanni” che si evidenzia impietoso), con i suoi movimenti goffi e sgraziati, è lui l'oracolo che con religiosa attenzione seguiremo morbosamente e venereremo per tutta l'esibizione. Non che i due compagni siano da meno: Banton giganteggia all'organo, tanto che pare abbia sei braccia; Evans porta avanti le articolate composizioni dei Van Der Graaf con agilità e precisione. Risultato: il muro di suono creato dai tre è qualcosa di notevole, nonostante l'assenza di un basso e dei fiati, elemento fondamentale del sound dei nostri, almeno negli anni d'oro; e Peter Hammil è la stella polare a cui tutto tende e la stella cometa che tutto può trascinare, grazie ad un carisma fuori dal comune e ad una passione e ad una sincerità che rimangono inossidabili nonostante il trascorrere degli anni.

I pezzi più recenti (che personalmente non conoscevo) si mischiano bene ai classici del passato. Se la riproposizione per intero della mastodontica “A Plague of Lighthouse Keepers” (da “Pawn Hearts”) non lascia certo indifferenti, è indubbio che la “Lifetime” di “Trisector” (2008), album del nuovo corso della band, rimanga uno dei momenti più sinceri ed intensi dello show di questa sera. E' ancora il gran cuore di Hammill che illumina le contorsioni progressive dei Van Der Graaf dei nostri giorni: una musica oscura, drammatica, alienante, comunque al servizio della poesia di quell'artista inquieto e visionario che rimane Peter Hammill, anche alla veneranda età di sessantacinque anni.

Chiude il set “Childlike Faith in Childhood's End” (da “Still Life”), ennesimo saliscendi emotivo marchiato a fuoco dalla impetuosa interpretazione di Hammill, che scandisce così bene le parole che i suoi bellissimi testi saranno intellegibili anche da chi non mastica con disinvoltura la lingua inglese. Le emozioni sono state tante e forti. Non si può tacere tuttavia, soprattutto nella parte finale dell'esibizione, in merito alla percezione di una lieve stanchezza, dovuta alla monotonia dei brani resi nella forma di stasera. Forse la musica dei Van Der Graaf è troppo complessa e densa di sfumature per essere riproposta in tre: i crescendo emotivi allestiti da Hammill e soci sono senz'altro notevoli, ma a lungo andare lo schema “ballata struggente/esplosione/pausa/ripartenza pazzoiede/ballata struggente” possono tediare, laddove le composizioni sono lunghe e in molti passaggi tendono ad assomigliarsi, soprattutto se i brani non si conoscono a menadito.

In ogni caso: grazie Peter per stasera e per tutto il resto: i tre “vecchietti” si abbracciano al centro del palco e salutano sorridenti il pubblico festante che li ripaga con un caloroso applauso e con manifestazioni di stima e di affetto. I più maliziosi commenteranno che per loro, considerate l'età e la forma fisica, è l'ora di andare a letto; gli altri ringraziano con gli occhi lucidi.

Pausa allestimento palco. Conoscendo il perfezionismo e la propensione maniacale di Wilson nella cura del più insignificante dei dettagli, si intuisce che la band non sarà molto presto sul palco. Il faccione lunare della copertina dell'ultimo album da studio “The Raven that Refused to Sing” sovrasta gigantesco lo stage; in sottofondo: inquieta musica ambient, probabilmente scritta da Wilson stesso. Varie figure si avvicendano dietro agli strumenti, li provano, ricevono l'ok dal fonico e li ripongono delicatamente ai lati della piattaforma; c'è chi adagia gli asciugamani per terra a portata di musicista, chi persino dà l'aspirapolvere (del resto Wilson suona a pieni nudi ed intende passeggiare sul pulito, mi fa presente un tipo accanto a me che pare saperne una più del diavolo).

I minuti passano, l'ambient si fa oscura cacofonia, si capisce che la band sta per fare il suo ingresso. Parte “Luminol” e l'esagitazione è alle stelle. Ero convinto che, dopo l'ostica esibizione dei Van Der Graaf, Wilson avrebbe riportato un po' di vita al Pistoia Blues. I suoni sono ancora un poco impastati, ma avranno modo di migliorare nel corso della serata. La macchina allestita da Wilson è perfetta e quando egli stesso fa il suo ingresso è il tripudio. E' la quinta volta, nel corso degli anni, che Wilson mi si para innanzi agli occhi e un poco inizio a conoscerlo. Me lo ricordo timido, testa china, sussurrante, dietro alla chitarra, quando i suoi Porcupine Tree non ambivano ancora ad ampie fasce di pubblico pagante, e i loro spettacoli erano all'insegna delle emozioni e della psichedelia. Ma ne è passata di acqua sotto i ponti, oggi Wilson è uno degli esponenti di spicco del rock progressivo contemporaneo, negli ultimi anni ha combinato di tutto e di più, si permette di suonare dopo i Van Der Graaf Generator senza nemmeno citarli, ma soprattutto si permette di sospendere a tempo indeterminato i suoi Porcupine Tree per dedicarsi appieno alla sua carriera solista, forte oramai di tre album, fra l'altro tutti molto belli (in particolare gli ultimi due).

E dirò di più: io t'ho capito Wilson. Wilson, ormai è chiaro, è un megalomane e si vuole legittimamente godere la sua vita da musicista di professione, per questo oggi preferisce andarsene in tour con musicisti con i controcazzi a cui delegare quasi completamente le smazzate esecutive, per poter lui stesso assurgere al ruolo di direttore d'orchestra ed avere più libertà e serenità di viversi la dimensione live. Wilson è infatti il cuore pulsante dello show, ma su palco non è quel factotum che abbiamo imparato a conoscere nei gig dei Porcupine Tree: Wilson stasera passeggerà, gesticolerà, aizzerà il pubblico, parlerà, aprirà siparietti, dirà ai musicisti cosa fare e persino darà indicazioni a distanza al tipo dietro al mixer. Di tanto in tanto imbraccerà una chitarra che gli passa tempestivamente un filippino o siederà dietro al suo marchingegno con i tasti, limitandosi a sottolineare i passaggi più incisivi dei brani. Si dedicherà quindi molto al canto (benché le porzioni strumentali dei suoi pezzi siano notevoli) e spesso maneggerà una chitarra acustica, lasciando il grosso delle sei corde al dotatissimo Guthrie Govan.

“Luminol” regge bene dal vivo, con la sua partenza in quarta è ideale per aprire il concerto. Interludio acustico e di colpo “Luminol” diviene una ballata folk dal retrogusto seventies, e poi via con la monumentale coda (molto King Crimson prima, molto Genesis dopo). Parte “Drive Home” e sono ancora emozioni, in particolare nella porzione dedicata al complicato assolo di chitarra. Come prevedibile “The Raven that Refused to Sing” verrà riprodotto per intero, eseguito impeccabilmente da musicisti freschi e preparati (il biondissimo Nick Beggs al basso – imponente la sua presenza scenica; il fondamentale Adam Holzman dietro alle tastiere, vero corpus sonoro del nuovo corso artistico di Wilson; l'indispensabile Theo Travis diviso fra sax e flauto, ad aggiungere suoni e colori alla festa in musica di Wilson; il session Chad Wackerman, che sostituisce dietro alla pelli Marco Minnemann, attualmente impegnato nel tour di Satriani, mica cazzi).

I nuovi brani si alternano a molti episodi tratti dal precedente “Grace for Drowning”, brani che dal vivo ho preferito rispetto a quelli più recenti, meno revivalistici e più intimamente legati alla penna di Wilson, che se da un lato si conferma senza ombra di dubbio un professionista attento, dotato e competente, dall'altro mostra sempre più evidentemente l'incapacità di fermarsi un attimo e concentrarsi sulla scrittura, sulla scrittura di canzoni originali che rispecchino la sua anima e non la voglia di divertirsi e giocare con i fantastici anni settanta. Di brani memorabili Wilson probabilmente non ne consegnerà alla storia della musica, ma è anche doveroso aggiungere che tutto stasera è decisamente piacevole e coinvolgente. Nitida e sentita la riproposizione delle ballad “Deform to Form a Star” e “Postcard”, ma meglio ancora fa “Index”, che riporta sul palco suoni moderni ed una elettronica che Wilson ha deciso ultimamente di trascurare. Il crescendo di “Index”, si diceva, fra oscuro trip-hop e chitarre taglienti, è indubbiamente uno dei momenti di maggiore pathos dello spettacolo, che fra le altre cose si è giovato dell'apporto di proiezioni (non sempre eccelse) sullo sfondo a rimarcare gli umori variegati di cui si è ammantato lo show.

In conclusione il concerto di Wilson si è rivelato uno sfavillante spettacolo pirotecnico di suoni ed immagini, nel quale sono emerse le diverse facce della sua visione artistica: momenti di fragile cantautorato (immensa la chiusura affidata a “The Raven that Refused to Sing”, che su album non mi aveva fatto impazzire, ma che dal vivo guadagna in intensità e potenza – si badi al commovente crescendo finale in cui Wilson violenta la chitarra per dare spessore a quella che si è dimostrata più di una ballata pianistica dal retrogusto radioheadsiano); imponenti e sfacciate esibizioni di barocco e straboccante rock progressivo (strabiliante “Raider II”, riproposta in lungo e in largo nei suoi ventitre minuti e passa, che scivola via senza mai annoiare, fra progressioni kingcrimsoniane, fasi di quiete minacciosa ed esplosioni di sferragliante metallo - è lampante come tutto si muova con una marcia in più quando Wilson impugna la sua chitarra); saggi inquieti di un rock moderno, sofisticato ma anche pesante (la sempre gradita “Insurgentes”). I vari elementi si sono bilanciati perfettamente fra loro e devo ammettere che nella resa finale ho preferito l'esibizione del Wilson solista ai set più recenti dei Porcupine Tree.

A proposito di Porcupine Tree, inaspettatamente il bis viene affidato alla storica “Radioactive Toy”, brano della primissima ora (forse il primo) dei Porcupine Tree, quando ancora erano una one-man band, brano che personalmente non vedevo dal vivo dai tempi del tour di “Lightbulb Sun”: un'altra decina di ottimi minuti, fra momenti sussurrati ed improvvisi arrembaggi di chitarre distorte, che hanno chiuso all'insegna dell'apocalisse atomica (si pensi alle immagini proiettate) un set che ha saputo intrattenere alla grande, grazie soprattutto alla professionalità ed alla dedizione di un signore molto fortunato che ha saputo fare della sua passione il suo mestiere.

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