Non attendo gli EP con grande entusiasmo, sono quello che se si trovasse ad essere leader di una band terrebbe le nuove canzoni in frigorifero per un successivo album; ma Steven Wilson la sua curiosità la suscita sempre. Ed ecco che ci offre un EP con 5 nuove tracce più una riedizione di una vecchia.
Qui probabilmente non incanta come è solito fare, probabilmente si trattava di melodie e idee spuntate in mente in qualche casuale momento nella sua mente e con la voglia di farle ascoltare comunque senza magari la voglia di trasformarle in qualcosa di seriamente concreto e costruito (beh, la mentalità che si cela dietro alla realizzazione di un EP è solitamente questa), ma ci regala 37 minuti comunque degni del suo nome, mai spogli della qualità che lo ha sempre contraddistinto.
A partire già dalla lunga e ben melodicamente impostata “My Book of Regrets”: un brano molto figlio del suo passato con i Porcupine Tree, caratterizzato proprio da quel sound tendenzialmente alternative che ha caratterizzato la band nella seconda fase di carriera; linee di chitarra pulite e semplici più qualche effetto in sottofondo e una struttura non troppo articolata ma che non esclude cambi al suo interno (vedi la sua parte lenta).
Degne di Wilson anche le due soft “Year of the Plague” e “Sunday Rain Sets In”: melodia leggera ma brillante nella prima, guidata da acuti e delicati arpeggi acustici e arrangiamenti orchestrali, più ostica e lievemente jazzata la seconda.
Tuttavia il brano che tende a spiccare è “Happiness III”: è puro pop-rock, bisogna ammetterlo senza vergognarsene, è un brano insolitamente “frizzante” (ma non troppo) per Wilson e anche questo va ammesso senza vergognarsi. Nemmeno con i Blackfield aveva realizzato un brano pop così immediato ed efficace; quando l’ho sentito ho pensato “’sto tizio non riesce a fare un brano scialbo nemmeno mettendosi a fare pop!”; se ci pensiamo a volte il vero artista si riconosce proprio nel momento in cui si mette a fare il brano più “easy” possibile… Non tutti riescono a non farlo sembrare banale.
“Vermillioncore” mostra invece il Wilson più elettronico e sperimentale, con tutti quegli effetti e quelle cupe linee di basso. Da bocciare invece la nuova versione di “Don’t Hate Me” (brano realizzato con i Porcupine Tree nell’album del 1999 “Stupid Dream”); se togli il ritornello cantato da Ninet Tayeb e la parte fusion di piano elettrico a sostituire il flauto il resto è una sterile copia dell’originale, così come lo era stata la rivisitazione di “Lazarus”; questo ci porta tranquillamente a dire che è meglio che Wilson rinunci a coverizzare i suoi vecchi progetti.
In sostanza diciamo che la magnificenza di “Hand. Cannot. Erase.” è ancora nei nostri pensieri ma non possiamo ritenerci delusi da queste nuove tracce. Steven Wilson sempre c’è!
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