Annunciare “due lunghe suite” equivale ad una dichiarazione di guerra, è una dichiarazione assai pesante, perché contiene una promessa piuttosto onerosa: fare un qualcosa di grandioso, di epico, di “totale”. Quando Steven Wilson ha messo sul piatto della bilancia l’idea di due lunghe suite la mia mente è subito andata ad alcune delle cose più pazze realizzate negli anni ‘70. In tanti avranno pensato ai Jethro Tull di “Thick as a Brick” o “A Passion Play” (dove la divisione in due frammenti era in realtà dettata soltanto dal limite fisico imposto dal vinile), a me sono venute in mente cose ancora più strampalate, come ad esempio il Mike Oldfield delle prime produzioni, dove in ogni facciata si intrecciavano fughe di innumerevoli strumenti, oppure le produzioni krautrock, dove spesso capitava di avere due facciate, ognuna delle quali proponeva un flusso uniforme di spregiudicata sperimentazione e ricerca.

E mi aspettavo questo, anche perché Wilson con la sua innegabile preparazione ne sarebbe stato indubbiamente capace, tra l’altro aveva già fatto qualcosa di più o meno simile con il suo progetto Bass Communion. Ma questo, ahimè, non succede, “The Overview” non è il disco fuori di testa che mi aspettavo, anzi, è un disco fin troppo composto. È soprattutto la prima delle due suite a soffrire di staticità, quasi tutto il suo corpo centrale poggia su una melodia fin troppo semplice e orecchiabile, leggera e cullante; per più di una decina di minuti è trascinata dal solito e inamovibile ritmo quasi tipico da ballata folk (non che lo sia davvero eh) con la chitarrina leggera e rarefatta a tessere trame non troppo complicate; un andamento fin troppo regolare e ridondante, senza sconvolgimenti ritmici e di intensità significativi, e piazzarci ogni tanto qualche basso distorto o qualche assolo di chitarra un po’ rumoroso e fuorviante non sembra sufficiente a movimentare l’architettura della composizione, che alla fine della fiera risulta descrivibile come una sorta di lungo brano pop volutamente tirato per le lunghe, con un lungo corpo, una lunga intro e una lunga outro.

La seconda suite ha già qualcosa in più, perché Wilson rispolvera certe soluzioni elettroniche e si sbizzarrisce un po’ di più con loop di synth allucinati e crescendo di intensità, è già abbastanza il Wilson che ci piace, in qualche modo tira su di parecchi punti il giudizio complessivo, ma non cancella del tutto la sensazione del qualcosa che manca, del non andare oltre, del rimanere comunque un po’ standard.

Ammetto di aver avuto paura già quando nei primi annunci si parlava di un ritorno al tipico prog-rock wilsoniano, temevo che avrei assistito ad un’operazione nostalgia. E a pensare male diciamo che c’ho azzeccato, Wilson si è limitato a tornare indietro ma non è andato troppo avanti, cosa che solitamente è un paradigma abbastanza sacrosanto della sua produzione e della sua filosofia, ma grazie alla sua furbizia è riuscito a far credere a tutti di aver fatto qualcosa di rivoluzionario, usando la formula delle due suite come spot pubblicitario, chi se ne frega se poi queste due suite non sono dotate di grande ricchezza di ispirazione; diciamo che si è comportato come un visual merchandiser più che come un artigiano del prog. Paradossalmente - se dovessimo prendere alla lettera la definizione “progressive” anziché considerarla indicativa di un genere con caratteristiche più o meno definite - c’era più mentalità prog in album come “To the Bone” e “The Future Bites” che non in questo; erano album pop, ma paradossalmente osavano di più, guardavano più avanti, questo invece guarda indietro, è prog solo di genere ma non di approccio.

Altra considerazione si può fare circa la scelta di tornare ad una strumentazione più naturale e meno elettronica. Recentemente Wilson aveva prediletto synth ed elettronica perché con essi si trovava più a suo agio nel comporre e si sentiva meno ispirato nel farlo con le chitarre… beh direi che qui si vede, ne abbiamo proprio la riprova, le cose che stuzzicano di più qui sono proprio le parti synth.

Ma vi starete chiedendo: la mia è una stroncatura? È una croce sopra? Beh, dopo tutto questo discorso vi sorprendo e vi dico di no. Perché cazzo, è sempre e comunque Steven Wilson, è sempre un maestro che ha creato una sua melodia e un suo mondo, qui lo porta comunque tutto alla luce, lo fa con la perizia di sempre in un mondo dove sui palchi commerciali il livello cade sempre più in basso. L’unica cosa è che ci si aspettava molto di più, anche perché tutto questo arriva a breve distanza da qualcosa di incredibile e caleidoscopico quale era “The Harmony Codex”. Personalmente nella graduatoria del Wilson solista colloco “The Overview” all’ultimo posto, ma è un ultimo posto con dignità!

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