L’attesa del piacere è essa stessa il piacere.”

No. Neanche per il cazzo.

Quattro anni di rimpianti per quei biglietti finiti troppo presto; quattro anni a mangiarsi i gomiti per le periodiche visualizzazioni su Youtube di quel concerto mancato a Ferrara nel maggio 2011; quattro anni di “[inserisci bestemmia qui], va a finire che quello non torna più”.

E, in effetti, del Sufjan Stevens esagerato – quello dei progetti grandiosi, dei titoli eccentrici, degli arrangiamenti orchestrali sproporzionati, quello senza vie di mezzo – forse non è rimasto poi molto. Si è spogliato: ha tolto lo scudo dei costumi attillati, ha rimosso maschere e adesivi fluo, ha dimenticato le ali d’angelo di due metri e ha lasciato a casa palloncini, tricchi-tracchi, stelle filanti, ricchi premi e cotillons. Si è messo a nudo su un disco bellissimo, Carrie & Lowell. E, altrettanto nudo (solo metaforicamente, purtroppo), lo ripropone davanti a un pubblico di sconosciuti frementi di aspettativa, per cui canta di morte, di perdita, di lutto.

Dopo l’intensissima Redford (For Yia-Yia and Pappou), che fa da introduzione, il protagonista del concerto è proprio Carrie & Lowell, riproposto per intero in modalità casuale (solo Blue Bucket of Gold arriverà più avanti). Nonostante il disco sia di recente uscita, i brani sorprendono per i nuovi arrangiamenti: è stato tolto il superfluo e aggiunto il necessario, e il folk più puro e intimo si alterna a inserti di elettronica e passaggi rock che riescono a sorprendere anche chi il disco l’ha ascoltato decine di volte.

La sequenza di Drawn To The Blood, Eugene (che si chiude su quel “What’s the point of singing songs, if they’ll never even hear you?”) e John My Beloved mi emoziona quasi fino alle lacrime. Notevolissimo anche il nuovo arrangiamento di All Of Me Wants All Of You che, da elliottsmittiana, cambia completamente volto grazie a una batteria trascinante, chitarre da OK Computer e a assoli di synth quasi prog nel finale. Meno riuscita, invece, è la versione live di Fourth of July, che perde d’intensità rispetto alla bella canzone del disco.

Il concerto continua con ripescaggi dal passato: l’emozionante The Owl and the Tanager, del sottovalutato All Delighted People EP, è eseguita da Sufjan da solo al pianoforte e contrasta con l’elettronica e i cori affollati di Vesuvius, che mandano in visibilio il pubblico.

Dopo il ritorno al piano con My Blue Bucket of Gold, la prima parte del concerto si conclude con una lunga, lunghissima outro elettronica: dalle voci angeliche e rilassanti dell’inizio, che hanno il pregio di non far calare la tensione di chi ascolta, cresce d’intensità, fino a collassare sul finale in un’esplosione di luci. E il pubblico si alza in piedi in uno scroscio d’applausi per Sufjan e per la dotatissima band.

Il ritorno sul palco è inevitabile, con tanto di cappellino giallo e camicia da adolescente. Ma non inganna nessuno: Sufjan è cresciuto ed è all’apice della sua maturità, ha doppiato la boa dei quarant’anni e si guarda indietro, ma senza tornarci. E la maturità traspare anche dalla manciata di parole che rivolge al pubblico, le prime dall’inizio del concerto, in cui si scusa per le canzoni troppo tristi e ragiona di vita e di morte.

Messa da parte l’elettronica, il finale acustico pesca a piene mani cinque brani dal passato, tra cui le bellissime For the Widows in Paradise, for the Fatherless in Ypsilanti e Casimir Pulanski Day. Anche Chicago non è più la conclusione festosa e casinista del passato e viene regalata in acustico a un pubblico compostissimo che non canta e non batte le mani, ma si alza per una seconda standing ovation alla fine del concerto.

Nota di merito anche per le luci, sobrie ma curatissime, diverse per ogni brano, ad esempio, alla fine di Drawn to the Blood sembrano chiedere “How? How did this happen?”, cercando la risposta tra il pubblico, con i bassi che ti fanno tremare anche l’anima nell’acustica perfetta del Teatro della Luna. Belli anche i pannelli su cui scorrono immagini suggestive o filmini d’infanzia per sottolineare i temi delle canzoni.

Senza esagerare, posso dirlo forte: un concerto memorabile, emozionante, ben al di là delle mie aspettative già altissime. Quattro anni di attesa sono valsi due ore di perfezione.

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