Se mai nella mia vita avessi avuto un barlume di oggettività nel giudicare un disco, di sicuro non è questo il caso. Perché con Mark Kozelek ci si casca dentro come in una buca sulla strada provinciale: inaspettatamente, rovinosamente, irrimediabilmente. È così da quando, anni fa, Down Colorful Hill dei Red House Painters mi ha preso a pugni nello stomaco con la delicatezza di una carezza. Quella voce, quella scrittura, quell’andatura da lumaca ubriaca — che altro non è che la sacra andatura dello slowcore, o meglio, della tristezza che si è iscritta in palestra e ha imparato a respirare piano.

Sono passati più di trent’anni da quel colpo di fulmine, ma continuo a seguire le evoluzioni e le reincarnazioni di Kozelek — sempre più outsider, sempre meno compromesso.

Con April, a nome Sun Kil Moon, il Nostro ci regala un disco che non prova nemmeno a piacerti: semplicemente si mette lì, accanto a te, e inizia a parlarti come un vecchio amico che non vedi da una vita. E dopo un po’ ti accorgi che non potresti farne a meno.

Dimenticate i singoli, le playlist, i finali col botto: April è un fiume che scorre lento, denso, pieno di curve, che ogni tanto si ferma a guardare le anatre e poi riprende il suo cammino. Ogni brano è una stanza da attraversare a piedi scalzi: Lost Verses, The Light, Tonight the Sky — tutte diverse, tutte marchiate a fuoco da quella voce un po’ rotta e da una scrittura che riesce a raccontare un mondo intero con una fotografia sfocata e una bottiglia mezza vuota.

C’è chi parla di Neil Young tra i numi tutelari — e va bene, ci può stare — ma Kozelek sembra più interessato a costruire la sua cattedrale di silenzi, piuttosto che a seguirne l’architettura. E se Ghosts of the Great Highway era una lettera d’amore scritta col sangue, e Tiny Cities un esperimento sotto acido a base di Modest Mouse, April è un diario dimenticato in soffitta, con dentro i pensieri più belli e i dolori più veri, mai scritti per essere letti.

Poi arriva Moorestown, e tutto si ferma: “My thoughts will pause, my throat will swell / When her name is spoken…” e via così, verso quell’angolo di mondo dove l’amore è una foto sbiadita e l’orizzonte è sempre un po’ troppo lontano. Will Oldham compare come uno spettro gentile in Unlit Hallway e Like the River, e la malinconia diventa quasi una forma di sollievo.

No, non ho alcun pudore nell’affermare che April sta sullo stesso livello delle cose migliori dei Red House Painters e che, se esistesse giustizia nell’arte, Mark Kozelek avrebbe lo stesso posto al sole di molti altri meno meritevoli. Ma il mondo è fatto così: chi urla meno, vende meno. E poi il Kozelek uomo sta spesso sul cazzo, inutile negarlo, e lui quasi ci gode. E quindi lui resta lì, santo protettore degli introversi, inchiodato nel pantheon degli incompresi insieme a Will Oldham e Mark Eitzel, in compagnia perfetta.

Però, ogni tanto, chiudi gli occhi, premi play su April, e senti che il tempo smette di scorrere. Non è poco, di questi tempi.

Elenco tracce e video

01   Lost Verses (09:43)

02   The Light (07:49)

03   Lucky Man (05:47)

04   Unlit Hallway (04:18)

05   Heron Blue (07:38)

06   Moorestown (04:40)

07   Harper Road (03:56)

08   Tonight the Sky (10:21)

09   Like the River (04:09)

10   Tonight in Bilbao (09:27)

11   Blue Orchids (05:56)

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Altre recensioni

Di  pinkholler

 Kozelek, da sempre lodato per le sue doti di cantante/autore, si sta lentamente ritagliando un posto di rilievo tra i grandi della sei corde di questo nuovo millennio.

 Il risultato finale è, nonostante ciò, molto omogeneo, monocromatico e cupo come la cover del disco.