"I disperati conoscono la elementare verità della vita, che è la sua continua, ondosa, fremente forza di mutamento, sino a quel estremo e inconoscibile che è la morte, di cui una sola cosa è certa: che ci cambierà"
Una tranquilla disperazione. E' questo il filo rosso, sottile, e fragilmente intenso che unisce indissolubilmente le dieci tracce di questo "Ghosts of the Great Highway". E la voce è quella inconfondibile, bambinesca ed immusonita del grande Mark Kozelek. Questo album "è" Mark Kozelek, è tutta la sua poetica. Una poetica del fragile, dell'instabile, di una bussola che indica tutte e nessuna direzione. Una bussola con l'ago impazzito nell'assurdo campo magnetico fra i poli del niente e del possibile. E con il ghiaccio della felicità che senti scricchiolare ad ogni istante sotto i passi incerti delle tue scelte di vita. E sin dagli spizzichii acustici dell'opener "Glen Tipton", quel che colpisce in questo album è l'abisso musicale scavato nell'anima dalle correnti sotteranee dell'assurdo.
I buried my first victim when I was nineteen
Went through her bedroom and the pockets of her jeans
And found her letters that said so many things
That really hurt me bad
"Un disperato è libero, è uno che non ha niente da perdere. Uno che ha messo la sua vita in gioco, e che trae energie dal saperla fragile, precaria, minacciata, sospesa"
E' la disperazione ipnotica e tremebonda che illumina la fragile supplica acustica di "Floating", una ballata lunare e incupita, con la voce flebile ma luminosa di Mark, tremante come una candela che si sta consumando nell'ultimo buio prima dell'alba.
come to me my love
one more night come on
'cause i don't wanna be without
without you
O le venature country-folk che rasserenano una lieve ninna-nanna come "Gentle Moon", dove la voce di Mark scivola nelle sue mille imperfezioni, bucce di banana di note ipnotiche e tragicamente bambinesche.
all calendars pass, days die off
and hope cannot last
but if love was like stone, then yours was mine
through to my bones
Fra i pesanti riff elettrici di "Salvador Sanchez" e la liquida psicadelia di "Lily and Parrots", la voce di Mark annaspa e si dibatte come chi non vuol nuotare nel mare che ha di dentro. Di chi vuol affogare e non vuol essere salvato. Un'epica dell'anima che si sublima nei quattordici lunghissimi minuti della monumentale, eroica, "Duk Koo Kim".
"Un disperato ha in pugno la propria vita quanto più è vuota. Può farne quello che vuole. Non ha obblighi, non dipende da nessuno, può scontrarsi con chiunque, partire all’assalto di qualunque potere oppressivo, di qualunque autorità"
Ed è la meravigliosa "Carry Me Ohio" il capolavoro del disco. Con quel "Sorry" che si strozza quasi accartocciandosi nella gola di Mark. Quel "Sorry" che precipita in una sorta di silenzio convulso come un corpo scosso e percosso in una crisi di grande male. Oltre sei minuti perduti in una atmosfera pop tristemente drogata, con un chorus tremendamente erotico ed allucinato, una sorta di Lazzaro-zombie che cammina in preda ad una forza musicale che è immensa e senza un perché.
can't count
to all the lovers i've burned through
so why do i still burn for you
i can't say
E' Mark Kozelek, semplicemente.
[Le citazioni di questa recensione sono tratte dal libro di Giuseppe Conte "Lettera ai disperati sulla primavera"]
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