Nel cinema italiano è abbastanza frequente, per i registi esordienti, puntare su racconti "di formazione", mettendo in scena ansie, crisi, dubbi, felicità attese e disperati dolori dei più giovani al contatto con il mondo adulto: il cinema italiano degli ultimi decenni è pieno di esempi, basti pensare fra gli altri alla Archibugi di "Mignon è partita", al Kim Rossi Stuart di "Anche libero va bene", come pure - anche se con accenti appena diversi - al Gianni Zanasi di "Non pensarci", o al Fabrizio Bentivoglio di "Lascia perdere Johnny" per non scendere agli esempi del Brizzi di "Notte prima...". Che questo genere paghi, in parte, anche al botteghino, lo spiegano anche i tentativi di registi già noti e apprezzati, come il Daniele Lucchetti di "Mio fratello è figlio unico".

Il film di Susanna Nicchiarelli non fa dunque eccezione, ponendosi nel solco degli esempi appena citati nella descrizione dei percorsi di crescita di un'adolescente, Luciana, nella periferia della Roma anni '50 e '60, come pretesto neppure troppo velato per una riflessione sul mondo adulto dell'epoca, qui compendiato dal contesto familiare e sociale in cui si muove la ragazzina: il fratello, epilettico e portatore di un lieve handicap mentale, cui la lega un rapporto d'affetto profondo, turbato dalla consapevolezza che la vicinanza ad un soggetto diverso finisce per rendere diversa anche lei, limitando la sua libertà e rendendola oggetto di scherni e prese in giro a scuola o fra gli amici; la famiglia proletaria con ambizioni piccolo borghesi, incarnata dal patrigno ben interpretato da Sergio Rubini e dalla madre, già vedova e disillusa, alla ricerca di una serenità economica in tempi di grandi difficoltà che ha le fattezze di una - relativamente imbruttita - Claudia Pandolfi, al suo primo ruolo maturo nel cinema; il circolo del PCI del Trullo, agitato dalla presenza di adulti (interpretati dalla stessa Nicchiarelli e da un bravo Angelo Orlando) che ancora credono nell'Idea, con grande acredine nei confronti dei "traditori socialisti",  e da giovani che tentano ora di imitare i modelli paterni, ora di distaccarsi da essi mediante toni ed azioni battagliere, ma finendo al dunque per cadere in errori e contraddizioni probabilmente ancor più nette di quelle delle generazioni precedenti.

La formazione di Luciana viene descritta dalla regista con accorata partecipazione - molto probabile qualche tocco autobiografico nella storia - , ruotando attorno ad una serie di contrasti che isolano Luciana dal contesto in cui vive, la rendono aliena al mondo dei più, ed assieme dotata di una "lucida chiaroveggenza" sulle miserie delle vita adulta, al pari dei cosmonauti russi adorati da lei e dal fratello come simbolo di un progresso possibile, ed alternativo al modello capitalista.

Netti sono pertanto i contrasti rispetto alla "anomalia" del fratello, dapprima nascosti e successivamente esplosi sino a sfiorare il dramma, rispetto ai giovani del circolo comunista, apparentemente moderni ma subdolamente meschini nel loro maschilismo e nel  considerare la donna come oggetto; rispetto alla madre che sembra tradire la memoria del marito defunto sposando per interesse una persona totalmente opposta al padre di Luciana, "tradendo" il proprio passato al pari dei socialisti che, sul piano politico, hanno "tradito" l'ideale comunista e la lotta di classe; rispetto agli stessi rappresentanti del Partito, rivoluzionari solo in apparenza, ma comunque alla ricerca di una rispettabilità ed accettazione sociale, votati al compromesso e spauriti non appena alla soglia del circolo si presenta un modesto e bonario maresciallo dei carabinieri.

Di questi contrasti, ed apparente diversità, vive la protagonista, crescendo.

Dico che la diversità è "apparente" perché la protagonista, nel suo agire, compie errori forse non meno gravi di quelli delle persone a cui si contrappone, dimostrando di essere, in nuce, non troppo migliore degli "altri" a cui si contrappone e da cui vuol distinguersi: si è già detto dell'odio represso verso il fratello, in un rapporto che il finale del film sembra pacificare ma senza troppo convincere; ma può anche farsi cenno alla feroce contrapposizione rispetto ad un patrigno "fascista" per il solo fatto di imporre delle regole, eppure dipinto come un uomo solo e forse più debole - assieme alla madre - di quanto non sembri; alla strumentalizzazione del primo fidanzatino da parte di Luciana,  per passare alla competizione per la conquista del "bello" del circolo che si scatena rispetto ad un'amichetta, o alla violenza contro la sede dei socialisti, in cui sembra cogliere un'anticipazione delle violenze che sarebbero seguite negli anni '70, ad opera di tutte le Luciane (ed i "Luciani") appena appena cresciuti.

Il merito maggiore del film è proprio quello di non risparmiare, fra le righe, un tocco di sarcasmo verso la stessa protagonista, seppure temperato da qualche indulgenza figlia dell'affetto che tutti, dalla regista agli spettatori finiscono per provare per lei - per il suo essere un brutto ma risoluto anatroccolo - sommando la poesia delle ingenue attese di una ragazzina che, come tutti, compie degli errori per il solo fatto di voler agire e vivere il proprio tempo, alla prosa di una livida periferia romana, dove l'unica costruzione riconoscibile ad intravvedersi è il "Colosseo Quadrato" dell'EUR e dove l'alba sul mare viene vista, con sintesi efficace ed a suo modo geniale, non dalla battigia, ma dalla scalinata degli stabilimenti balneari, con i casotti che frammentano ogni infinito possibile come una siepe di cemento invalicabile, che tanto mi ha ricordato la "triste meraviglia" di Montale.

Il fatto che ad andare sulla Luna non siano stati i cosmonauti russi ma gli astronauti americani conferma, del resto, come i viaggi infiniti dell'adolescenza di Luciana si siano dovuti scontrare con la concretezza degli eventi, che giorno dopo giorno consumano il futuro di ognuno, incapsulandoci, spesso impotenti, come la cagnetta Laika nel suo primo ed ultimo viaggio verso le stelle.

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