Neve. Bianca, candida neve. Una distesa uniforme e soffice. Totalizzante. Si adegua ad ogni forma, ad ogni oggetto, e sembra farlo proprio, impossessandosene silenziosamente, inesorabilmente. La neve arriva e non fa rumore, non chiede il permesso a nessuno. Cieca e muta, danza da sola. In lontanza, oltre il cielo impenetrabile: un eco appena percettibile avanza da distanze siderali, cavalca il vento, ci viene incontro ed accarezza il nostro viso. I fiocchi immacolati lo accompagnano, abbandonandolo subito dopo. Quell’eco, divenuto ninna nanna, è costituito da microcristalli limpidi e puri che incominciano a trasformarsi e a prendere forma dinanzi ai nostri occhi.

La musa che si diverte a far tutto ciò ha un nome: Susanne Sundfør, ed il suo mondo è costituita da musica e ghiaccio. Una voce che sa di neve e cristalli, vibrante di un’intensità micidiale, dotata di una purezza quasi adolescenziale, ma che al contempo è calda come il fuoco scoppiettante nel camino di una baita. La norvegese, classe ’86, di gelo se ne intende e lo dimostra in queste dieci tracce facenti parte del suo terzo disco uscito l’anno scorso, “The Brothel”. Come una bianca maga dei ghiacci, Susanne si è divertita a congelare in enormi colonne sonore differenti generi: con glaciale indifferenza, ma anche con tanta classe, li ha semplicemente frantumati e i frammenti sciolti al fuoco delle emozioni che solo arrangiamenti di piano ed archi riescono a suscitare. L’attitudine che si respira è in ogni caso molto personale e in qualche modo originale, finalizzata a creare melodie orecchiabili ma mai banali, sorrette da strutture semplici ma non per questo immediatamente prevedibili. Nel paesaggio innevato che la nostra norvegese dipinge (aiutata alla produzione da Lars Horntveth dei Jaga Jazzist) è la voce la vera protagonista: una ballerina su ghiaccio che proietta le sue delicate evoluzioni nel nostro intimo. Sia che si tratti di pezzi dal sapore acustico costituiti da piano, tastiere e archi, come le pure emozioni della title-track, la sognante “Black Widow”, la solenne e al contempo delicata “O Master” o ancora la preghiera/litania/ninna nanna “Father Father”, sia che ci si imbatta in canzoni più articolate e costruite dove synth, percussioni ed arrangiamenti elettronici colorano il tutto (“Turkish Delight”, “Lilith”, “It’s All Gone Tomorrow”), l’impressione è che la voce riesca sempre a svettare su tutto, indicando la via da seguire agli arrangiamenti senza minimamente metterli in secondo piano. Come il calore tutto particolare di un fuoco azzurrino e freddo ma invitante; un “ghiaccio bollente” che ci rigiriamo fra le mani come un diamante di lava che non vorremmo mai lasciare.

Niente singhiozzi o compiacimenti in “The Brothel”, come magari un certo cantautorato dai toni semi-depressivi tende a fare: il vento gelido del polo ha congelato le lacrime spazzandole ormai via, lasciando la scena al crepuscolo e alle ombre proiettate da squarci boreali. A voi la voglia di ammirarle. Ma ricordatevi di coprirvi bene.

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