Lievi e avvolgenti spire di vapore salgono dalla tazzina, spandendo la fragranza speziata di una bevanda che pare di sorseggiare insieme a lei, mentre la sua musica si diffonde nella stanza. Un mix calibrato di sapori, una sensazione di costante calore emanato dall’incontro tra i suoni, curatissimi, e la voce. Una voce che avevo già ascoltato nel bel disco d'esordio, ma che qui pare aver raggiunto una maggior consapevolezza di sé, una misurata versatilità.

“Salt Rain” (2001) aveva rivelato le qualità di Susheela Raman, indiana, londinese di nascita, vissuta in Australia. E la multiforme geografia dei suo dati anagrafici sembrava riflettersi nella mappa che il disco disegnava, attingendo a soluzioni “folk”, reggae e soul.
Nel 2003, “Love Trap” raccolse i risultati di una maggiore visibilità, anche in termini di discreto successo commerciale, che arrise ad un lavoro caratterizzato però da un'eccessiva profusione di suggestioni e arrangiamenti.

Quello che sto ascoltando è invece un lavoro di grande equilibrio, egregiamente prodotto, che condensa nella forma canzone l’essenza di più influenze, senza risultare mai forzato, senza piegare in modo artificioso sonorità tradizionali al giogo dell'esotismo world.
Come se, liberata (anziché costretta ad un clichè) dal precedente successo, La Raman si sia concessa un respiro più rilassato e naturale, che riverbera in tutti i 13 brani.
Sono canzoni oscillanti in una dimensione che rifugge la sovrabbondanza per consentire ai semplici elementi che le costituiscono di vibrare nell'aria tersa che li circonda.
Attitudine assecondata nella costruzione dei brani, realizzati registrando, per la prima volta, con musicisti del sud dell'India, per poi avvalersi di musicisti africani, asiatici e americani, oltre che del sodale chitarrista e produttore Sam Mills, e completare il lavoro a Londra.
Le sonorità, perfettamente amalgamate, intrecciano trame che le melodie, spesso sinuose, della voce di Susheela, attraversano con distesa efficacia, modulate su registri medio bassi.

La maggior parte delle canzoni sono cantate in inglese e hindu, il francese apparendo solo per le movenze della delicata ballata “L'Ame Volatile”.
Alcune sembrano condensarsi meglio intorno ad una struttura più tipica, come ad esempio il brano d’apertura “What Silente Said”, l'altrettanto semplice melodia racchiusa in “The Same Song”, o nella “Meanwhile” percorsa dagli archi con i quali dialoga la voce di Susheela.
Archi che solcano anche la superficie più “etnica”, ed increspata dalle tablas, di “Chordiya”, sulla quale si svolge un’interpretazione vocale più “libera” e modulata. In un altro caso è una liquida chitarra a suggerire l’andamento ipnotico e reiterato, che accompagna la narrazione indiana di “Idi Samayam”, curiosamente venata di aromi d’Africa.
Il disco si chiude con l’episodio forse meno convincente, quella “Leela” dall'incedere più sbarazzino, che vorrebbe probabilmente spostare ancora un poco oltre l’eclettismo dell'interpretazione, risultando però come estraneo, quasi un'improbabile versione saltellante, condita di violini, di un brano di Michelle Shocked. Preferisco il penultimo brano, “Sharavana” con la lunga intro atmosferica che conduce ai vocalizzi su un tappeto di percussioni punteggiato da un basso morbido e una leggera chitarra bluesy.

“Music For Crocodiles” è efficacemente rappresentato dall'immagine della copertina, che ritrae il volto della musicista anglo indiana nell'atto di sorseggiare una bevanda. Volto sul quale la luce disegna un chiaroscuro che porta in risalto, attraverso graduali contrasti piuttosto che sovraesposizioni accecanti, la seducente bellezza di uno sguardo profondo su cose apparentemente semplici.
Non un capolavoro. Ma un buon lavoro. Uno dei migliori, nell'anno passato, nell'ormai inflazionato mercato della cosiddetta world music.

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