Rivolto agli amanti del blues: Stormy Monday, Duane Allman e gli altri...

They call it stormy monday, but tuesday's just as bad
Lo chiamano lunedì di tempesta, ma martedì non scherza. E' il primo verso del mio testo.

They call it stormy moday, but tuesday's just as bad
Wednesday's worse, and thursday's also sad

Lo chiamano lunedì di tempesta, ma martedì non scherza. Mercoledì è peggio, e anche Giovedi è triste. Questo è il testo completo della mia prima strofa.
Mi chiamano Stormy Monday, ma il mio vero titolo completo è Call It Stormy Monday (But Tuesday Is Just as Bad), con le parentesi intorno al martedì.

Mi presento. Sono uno dei blues più famosi della storia. La mia di storia, è fatta di gloria e successo. Sono nato poco dopo la fine della II° guerra mondiale, ho attraversato i decenni per arrivare ad oggi, vecchio ma ancora in buona salute. Ho girato tutta l'America, poi ho attraversato anche l'oceano per arrivare qui da voi in Europa. Alla fine ho suonato in tutto il mondo. Mi hanno eseguito migliaia di volte migliaia di musicisti di ogni genere, dalle grandi star a malinconici pianisti di piano bar su navi da crociera. Pure i jazzisti mi hanno corteggiato. Non parliamo dei giovani del rock. Quello è stato amore a prima vista.

Mi piacerebbe condividere con voi i momenti più belli della mia vita, perché non c'è cosa più triste della gloria non condivisa. Se perdonerete la mia tendenza alla divagazione (dovuta all'età), vorrei sfogliare con voi il mio album di fotografie. Battere l'indice su fotografie di vecchi musicisti che mi hanno interpretato nel corso di cinquant'anni, quelle più belle. Ricordare qualcuna delle loro storie. Fatemi felice, state con me solo qualche minuto.

Sono figlio di un musicista chiamato T-Bone Walker, nato nel Texas nel 1910. T-Bone era per metà afroamericano e per metà indiano Cherokee. Si potrebbe pensare che nel suo DNA ci fosse un carico di propositi di vendetta, di rivalsa verso l'America che aveva deportato i suoi avi paterni e sterminato quelli materni.

E invece no. Passò la sua vita a regalare ritmo e divertimento agli americani. Divenne una delle figure di spicco di diverse correnti del blues, dal jump blues, il blues più movimentato, influenzato dalle grandi orchestre jazz, al westcoast-blues, quello più moderno in cui già negli anni 40 si facevano assolo con la chitarra elettrica. T-Bone era un virtuoso di questo strumento. Poteva saltare e atterrare a gambe aperte a spaccata tenendo la chitarra dietro le spalle senza smettere di suonare. E suonare bene. Una volta però, nei primi anni settanta, rimase bloccato per via di quella spaccata, che dovettero portarlo al pronto soccorso. Si era schiacciato i testicoli, non posso neanche pensarci. Da quella volta si è diede una calmata e la spaccata durante l'assolo non l'ho più vista.

Il suo stile finì per influenzare moltissimi musicisti. B.B. King aveva scelto la chitarra come il suo strumento assistendo ad un concerto di T-Bone Walker, e persino Jimi Hendrix prese da T-Bone la teatralità strappaapplauso dell'acrobazia virtuosistica durante l'assolo (suonare con i denti o dietro la schiena).

Io sono venuto alla luce in uno studio di registrazione di Hollywood nel 1947, patrocinato dall'etichetta Black and White. T-Bone, accompagnato da un piccolo combo di 5 musicisti, mi arrangiò come blues in dodici ottavi, con velocità sul metronomo di 66 bits al minuto. Mi arrangiò in puro stile West Coast Blues, con tanto d'assolo di chitarra elettrica. Non saprei proprio spiegarvi come accadde, infondo i blues si assomigliano tutti. Eppure il mio disco 78 giri andò via come il pane e fece la fortuna di T-Bone Walker, che da quel momento venne sempre identificato come "Mister Stormy Monday".

The eagle flies on friday, and saturday I go out to play

L'aquila vola di venerdì, e sabato esco a giocare.

Yes, the eagle flies on friday, and saturday I go out to play
sunday I go to church, then I kneel down and pray

L'aquila vola di venerdì, e di sabato esco a giocare. Domenica vado in chiesa, poi mi inginocchio e prego. Ricordatevi che sono un blues: tutto in me è gergo e doppiosenso. Tutto il mio testo deve essere interpretato nel gergo blues. La tempesta della prima strofa, che imperversa sui primi 4 giorni della settimana ovviamente non è una condizione metereologica, quanto il sacrificio del quotidiano, la fatica del lavoro aggravata dalla pena per la mancanza di qualcuno. Ma questa sfiga imperversante, finalmente trova una tregua il venerdì, quando vola l'aquila, espressione gergale per significare il giorno di paga. Finalmente il venerdì arrivano i soldi e il sabato si gioca. Si spende tutto pur di non pensare alle proprie grane.

Il volo dell'aquila, però, porta solo una tregua. La domenica per la preghiera, in cui si torna a riflettere sul vero motivo dell'angoscia, quel tarlo doloroso che rende la vita difficile, "stormy". E nel blues il dolore riflette quasi sempre l'assedio di un'assenza. Assenza della fortuna o del denaro per vivere contenti, ma molto più spesso l'assenza di una persona amata, morta o andata via. Tradizionalmente il blues corrisponde proprio al demone stesso, venuto per avvelenare la vita. Ma egli se ne va nel momento in cui viene cantato. Insomma, parliamo di un linguaggio musicale che, nella sua forma originaria, è affine ad un rito esorcistico.

Così entrai nel repertorio di moltissimi musicisti di colore. Il mio destino poteva essere di finire dimenticato, come molti vecchi blues, ma nel settembre del 1961, a Nashville, nel Tennessee, la mia storia prese un verso inaspettato. In uno studio di registrazione si trovava il musicista Bobby Bland, piuttosto noto negli ambienti della musica nera, impegnato nella realizzazione di un disco. In una pausa di lavoro chiese al suo chitarrista di provare Stormy Monday, così, per divertimento. Il bassista appoggiò il panino al tonno e carciofini all'amplificatore Marshall. Mi provarono abbozzando i miei accordi, ma il chitarrista, quasi involontariamente, apportò una modifica importante alla mia struttura armonica. Un passaggio di accordi da maggiore a minore. La nuova versione piacque a Bobby Bland, tanto che volle l'incisione nel suo nuovo disco.

Per dirvi la verità, la versione di Bobby Bland non è un gran che. Niente di memorabile. Ma la modifica armonica che avevano apportato si rivelò decisiva per il mio destino. Mi avevano reso leggermente più malinconico, più orecchiabile, ma anche più personale e originale. Con quella piccola "plastica" ai miei connotati ero ora più appetibile ad un pubblico estremamente più ampio di quanto lo era il pubblico ristretto del blues. A volte un piccolo intervento di plastica, una piccola tiratina qua o là, è sufficiente per aprirti a una nuova stagione di giovinezza. Fu esattamente ciò che capitò a me

In quegli anni (siamo all'inizio degli anni '60) stava imperversando in Europa una generazione di giovanissimi artisti rock, la cosiddetta british invasion. C'erano questi ragazzi che stavano suonando il nuovo verbo, il rock, e nella ricetta di questa nuova musica era stato riversato in grande quantità l'ingrediente della musica nera. Ma essa non era mescolata uniformemente. C'era il versante del rock melodico e meno influenzato dalla black music, il pop beat dei Beatles, ma poi c'era un versante molto più vicino alla musica nera, quello dove operavano gruppi come i Rolling Stones, i Cream di Eric Clapton, o gli Animals di Eric Burdon. Spingendoci ancora più in la, si arrivava proprio sul terreno di frontiera, la frontiera tra la musica bianca e quella nera. Con il benestare di quei musicisti che stavano sperimentando il crossover tra blues e rock, piazzati come un Ceckpoint Charlie su quella grande frontiera, il nero Freddy King da una parte e il bianco Alexis Korner dall'altra, oltrepassai il muro ed entrai alla grande nel mondo del rock, un mondo di musicisti adolescenti, appassionati e ambiziosi.

In inghilterra presero a suonarmi giovani bands come i Bluesbreakers di John Mayall, i Cream di Eric Clapton, i Fletwood Mac di Peter Green, persino i Jethro Tull. Adorabili bianche teenagers in minigonna battevano il mio ritmo con le gambe inguainate da calze di nylon acquistate in Carnaby Street. I Manfred Mann, ragazzini londinesi innamorati del blues e delle basette lunghe sino al mento, mi iniziavano con una torrida armonica a bocca, e chitarristi come Jeff Beck facevano lunghi e potenti assolo sui miei accordi. Un oscuro musicista con una terrificante camicia hawaiana chiamato Benny Latimore mi stirò come un grissino rubatà arrangiandomi in versione swing e, si pagò così le rate della sua nuova Cadillac Eldorado con sedili leopardati (ammirata da tutti i papponi della citta). Mi rese come l'arredo della sua Cadillac, orrendo, però funzionò. Poi nel 1970 finalmente venne il momento più memorabile della mia vita: finii nel repertorio di una tra le più grandi rock band americane di tutti i tempi: l'Allman Brothers Band. E qui mi emoziono sempre.

Lord have mercy, Lord have mercy on me.

Lord have mercy, my heart's in misery
Crazy about my baby, yes, send her back to me

Signore, abbi pietà di me. Signore, abbi pietà, il mio cuore è ridotto in miseria. Impazzito per via della mia ragazza, sì, falla tornare da me. La mia ultima strofa racconta finalmente con chiarezza il motivo della tempesta sui giorni della settimana: una donna che se ne è andata, l'assenza che avvelena la vita. Finisco con una preghiera in stile quasi gospel, una preghiera per il suo ritorno.

E' questa la mia forza: la semplicità delle mie parole. La settimana di lavoro e patimenti per sudare due soldi, il sabato per sputtanarli al gioco e non pensare, la domenica per la speranza, con una preghiera per il ritorno di una donna. Io canto la fatica dell'oggi e la speranza per il domani: canto con poche parole la condizione d'animo di milioni di persone. E canto con la forza viscerale del blues. Ecco spiegato come ho potuto attraversare mezzo secolo di musica.

Duane Allman è stato uno dei più grandi chitarristi della storia del rock. Con suo fratello Gregg, cantante dalla voce nera come la pece, fondò uno dei gruppi più leggendari della storia. Venivano da Macon, nel profondo Texas. Insieme ai Lynyrd Skynyrd della Florida, tra il 1969 e il 1977 fecero la storia del "southern rock", il rock americano degli stati del sud. Una miscela micidiale: musica nera, molto blues e rhythm'n'blues, cadenze ostinate del boogie, sentori di country da Nashville e di tex-mex dal Messico. Ma il rock sudista raccontava sopratutto uno stile di vita. "Vivere liberi o morire". Praterie e deserti attraversati in motocicletta, bivacchi e jam sessions intorno al fuoco, grandi sbornie e trip di LSD, amori fugaci in stanze di motel e risse devastanti in sperdute sale da ballo, botte da orbi. Insomma, il mondo degli "easy riders" del film di Dennis Hopper, e poi quell'inconfondibile, famigerato orgoglio sudista per le radici e la bandiera.

Il 12 marzo 1971 gli Allman Brothers mi eseguirono al Fillmore East di New York. Ricordo come fosse ieri quella sera, un grande trionfale terso rosso tramonto di fine inverno specchiato dai grattacieli di Manhattan, la folla di fronte e sul retro del Fillmore. L'Allman Band spuntò in moto, i fratelli Allman su Arley Davidson, il bassista Oakley e il batterista su una Triumph del 1967. I caschi militari, le giacche di cuoio variopinte con simboli anarchici. Il pubblico si aprì per farli passare e li applaudì. Attraversarono le ali di folla sgasando, come banditi western che entrano in città a cavallo. Più che un concerto rock sembrava l'inizio di un film di Sergio Leone o di Sam Peckinpah. Il Mucchio Selvaggio entra in città.

Quella sera mi eseguirono in una versione dalla cadenza lentissima, malinconica. Duane Allman fece un assolo di chitarra che è rimasto leggendario per la sua semplice intensità. Così finii riversato in quello che la rivista Rolling Stone definisce il più grande album live della storia: "The Allman Brothers Band live at Fillmore East", pubblicato in quel 1971. Quattro mesi dopo quell'incisione Duane Allman morì in un terribile incidente di moto a due passi da casa sua, a Macon, nel Texas. Finì contro un camion con la sua Arley Davidson. Ciò che è veramente difficile da credere, eppure è accaduto sul serio, è che meno di un anno dopo, a due isolati dal luogo dell'incidente di Duane, Barry Oakley, il bassista del gruppo, fece la stessa identica fine, schiantandosi contro un autobus di linea con la sua Triumph.

Direte che furono sfortunati. Sicuramente il destino non fu generoso con i fratelli Allman. Ma non scherza neppure la sfortuna della loro band concorrente, i Lynyrd Skynyrd della Florida, che nel 1977 precipitarono con il loro aereo mentre andavano a fare un concerto a Baton Rouge, Luisiana. Morirono sul colpo il cantante e frontman Ronnie Van Zandt, il chitarrista e sua sorella, corista del gruppo, e pure il loro manager, oltre ai membri dell’equipaggio. Tutti gli altri componenti del gruppo rimasero gravemente feriti.

Qualcuno, nel corso degli anni ha parlato di maledizione del rock sudista. Io però non credo che sia così. Credo che quei lutti, e altri ancora che sono seguiti (penso alla fine di Steve Ray Vaughan) abbiano a che fare con lo stile di vita scelto da quella generazione. Quel "vivere liberi o morire" che era divenuto persino il motto ufficiale di uno degli stati americani veniva dalla fusione delle radici cowboy della provincia rurale americana con l'influenza della cultura della Beat Generation, penso sopratutto al romanzo "On The Road" di Kerouac.

Ne risultava un concetto di libertà estremamente ingenuo, ma autentico, almeno in quegli anni. La vita concepita come una eterna adolescenza in viaggio sulla strada, lunghe highways percorse in motocicletta, ma anche l'ingenua aspirazione all'esplorazione di territori interiori con l'eroina e l'LSD, l'esistenza come esperienza senza fine e costante superamento di ogni limite, nella quale la parola "domani" è assente dal vocabolario. Un modello di vita che affascina molti ancora oggi. Ebbene, quello stile di vita era estremamente rischioso. E quegli artisti rischiavano sul serio perché non erano personaggi fasulli come molte baby rockstars alle quali ci ha abituato la nostra contemporaneità.

Dennis Hopper ha offerto un racconto cinematografico di ciò di cui stiamo parlando nel 1969 con il film "Easy Rider". Il film non ha un lieto fine, ma un tragico epilogo che tratteggia perfettamente i termini della questione. Vivere liberi o morire spesso significa morire.

Ecco, lo sapevo. Ho divagato di nuovo. E si che avevo promesso di non farlo. Ma quando ripenso a Duane Allman e gli altri e alle luci di New York e del Fillmore quella sera di marzo del '71, è facile che mi lasci andare. Va beh, è passato tanto tempo. Pace alla tua anima Duane Allman.

Per concludere il mio album di ricordi, posso dire che ancora oggi i musicisti blues mi eseguono volentieri. Vorrei solo più lasciarvi con un consiglio per il benessere delle vostre orecchie e del vostro animo. Un consiglio gratis, lo faccio volentieri.

Uno dei musicisti tra i più importanti che mi hanno eseguito per tutto il corso della sua lunghissima carriera è stato certamente B.B. King, uno straordinario chitarrista blues, uno dei più grandi di tutti i tempi, tra l'altro direttamente ispirato da mio padre T. Bone Walker. Non certo un virtuoso del manico, un "manolenta" che raramente si avventurava oltre la scala pentatonica. Eppure, nonostante i suoi limiti tecnici, in grado di emozionare il pubblico in maniera straordinaria. Tanto da passare alla storia.

Nel 1993 King ha deciso di incidere una mia versione in duetto con un altro chitarrista blues, il giovane Albert Collins. Due generazioni a confronto. Ebbene, nell'incisione del 1993 i due musicisti improvvisano insieme un assolo veramente bello. Certo, non è propriamente musica d'avanguardia, anzi, per dirla tutta, sono sempre io, ancora arzillo dopo cinquant'anni di strada. Ma B.B.King e Albert Collins riescono a tirarmi fuori un'energia che pensavo ormai perduta dai tempi gloriosi dei fratelli Allman. E allora rifatevi le orecchie con B. B. King e Albert Collins, datemi retta.

E ricordatevi, the eagle flies on friday, l'aquila vola di venerdì. Fatevi i vostri conti.

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