'Imprint' è l'ultimo grande film in ordine di tempo dell'iperproduttivo maestro giapponese Takashi Miike, ovverò uno dei migliori cineasti del "raccapricciante" che abbiamo in questo momento sul pianeta terra, che sia forse il più grande lo si evince dalla sua sterminata sequela di capolavori nel giro di pochi anni, e anche dalla collana masters of horror da cui è tratto questo film della durata di un ora, ad esempio il film di argento della collana è lontano anni luce dalla genialità di 'Imprint', sintomo della decadenza di un modo di fare horror che ormai ha stancato e che si ricicla su se stesso senza proporre novità, Miike se ne frega del passato ed apre a nuove possibilità espressive, continuando per la sua strada.

"Imprint" è un passo ancora avanti rispetto ad "Audition", le torture mostrate in questo film sono quasi certamente le torture più efferate e traumatiche che mi sia stato dato di vedere al cinema, ancora più cruente di quelle degli ultimi folli 20 minuti di 'audition' che turbò un po tutti con la sua violenza sadica e con atmosfere stranianti al limite della sopportazione, con 'imprint' si va ancora oltre, e come in "ichi the killer" Miike supera se stesso, con sequenze che trasudano il sangue nero della morte, a corollario di qualcosa che si è mostrato a noi in uno stato di grazia irripetibile e dannata. E ancora piu estremo di altri suoi lavori per tutta una simbologia che adotta per rendere così efficace il malato che si insinua nei rapporti umani: l'aborto rappresentato dalla sequenza del feto strappato con le mani di forza dall'utero, o l'inquisizione della prostituta, o l'immagine del feto che scorre lungo il fiume.

La scena della tortura è ovviamente anche l'auto celebrazione stessa di Miike come maestro nel rendere al massimo la suggestione visiva con questa mostra delle atrocità, pensiamo all'aborto e all' incesto, 2 argomenti che definire tabù nei paesi occidentali è un eufemismo, e lo straniero in terra straniera, un americano, che si agira stupito ed incredulo tra queste tende fantasmagoriche e che ben presto viene a conoscenza diretta di orribili segreti degli abitanti del luogo, l'americano in questo caso è colui che vede cosa c'è sopra la punta di ogni spillo, che vede dinanzi ai suoi occhi quello che la sua cultura ha tenuto nascosto ai suoi compatrioti ma che esiste, magari nelle prigioni di Guantanamo, lontano dalle telecamere, ma esiste, così come esiste la metà oscura che alberga in ognuno di noi, che ci rende avidi e menzogneri, rappresentata in questo caso dalla figura della puttana sfigurata che nasconde all'interno della sua testa la sorella gemella, la parte demoniaca della prostituta e che vuol prendere il sopravvento, rappresentata da una mano, simbolo dell'arraffare più che del stringere la mano in segno di rispetto o in segno di amicizia.

Visionario e malato a livelli sproporzionati, il film trasuda una poetica perversione da fiaba, così come per Cioran anche per Miike quasi tutte le malattie, fisiche e mentali, hanno virtù liriche, e se "visitor q", complessivamente il più malato film di Miike terminava con un buon auspicio di ricomposizione familiare qua non c'è più scampo, in quanto si muore ancora prima di nascere o appena nati, senza nemmeno arrivare alla fanciullezza, o nel caso si sopravviva, si viene derubati ancora bambini dell'innocenza (il padre che stupra la figlia).

È lecito chiedersi fin dove potrà arrivare questo prodigioso cineasta, per ora godiamoci quest'altra devastante fiaba perversa.

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