Quando Froese, Franke e più tardi Schmoelling si mettevano on stage, ognuno posizionato come un punto di Lagrange in un sistema stabile ma in continua evoluzione, mi piace pensare che gli stessi synth, i mellotron, i sequencer e i campionatori, il flusso elettronico stesso, insomma, ne fosse in qualche modo consapevole. Come se tutto l’arsenale di suoni, distorsioni, ritmiche e samples accettasse di farsi pensare, modellare e condurre in paesaggi sempre nuovi, qualcuno più ammaliante e coinvolgente di altri, ma sempre e comunque in viaggio. Purtroppo per me, non ho mai avuto la possibilità di vedere questa formazione all’opera, ma nel 2012 ho visto i Tangerine Dream, con Froese e altri nuovi membri (tra cui l’ammaliante Linda Spa), suonare buona parte di questo bellissimo album.

Il Logos originale è stato registrato nel 1982 a Londra. Siamo nel periodo subito dopo Tangram e appena prima quello che viene considerato il loro ultimo, grande classico, Hyperborea. Per quanto mi riguarda, la finestra 1979-1983 è quella in cui questi crucchi più mi intrigano. Dall’ultimo capolavoro “analogico”, il potentissimo Force Majeure, venato di progressive e musica classica, si passa alla briosa digitalizzazione simil-pop degli anni ’80, con un gusto per la melodia un po’ più immediata, meno “spaziale”, più intellegibile. Un po’ come se dai segnali di un radiotelescopio, dei quali io non capisco una sega se non c’è l’astronomo a spigare, si passasse alle foto in alta risoluzione della Voyager 2 che passa a razzo tra Titano e Giapeto.

Logos è una fucina di melodie, pattern ritmici, atmosfere, bozzetti, un ribollire di campi elettronici che si suddivide internamente i 9 movimenti, tutti, tranne il primo e l’ultimo, identificati da un colore. Si va dell’ipnotico sogno ad occhi aperti dell’Intro, al flusso magmatico del Ciano (no, non Galeazzo…), all’ipnotico incedere del Velluto (che non è propriamente un colore ma vabbé…) e via così, tra intarsi, bridge, amalgami sonore. Ci sono parecchie sonorità oggettivamente un po’ demodé, soluzioni più semplici e dirette rispetto alle opere dei Seventies, ma non mancano il gusto per la cesellatura, la buona melodia e una certa dose di creatività.

I picchi, manco a dirlo, arrivano in chiusura delle facciate: Logos Blue arriva imprevisto a squarciare il parossistico ritmo di sequencer della sezione precedente, ad espandere il ritmo, stratificandosi poi in un inseguirsi di sintetizzatori. Logos Coda, che chiude di fatto l’opera, è preceduta prima dai momenti più oscuri e inquietanti del disco, poi da una curiosa cavalcata pop sorretta da suoni liquidi, chitarre elettriche campionate e assolini. Arriva con un incedere imperiale e fantascientifico, che anticipa un po’ i toni di Hyperborea e regala un estatico, strano senso di sollievo. Menzioncina per l’encore del live, Dominion, catchy e trascurabile per quanto gradevole.

Ah, e come al solito i Tangerine Dream non suonano dal vivo brani da studio, ma propongono materiale inedito e presumo spesso anche improvvisato. Curiosamente, da questo album live verranno estratti alcune parti, soprattutto dalla seconda facciata, che andranno a compore un’altra ammaliante e bizzarra avventura dei crucchi, l’inquietante soundtrack di The Keep, film bellico-fantasy di Michael Mann (1983), che merita una visione anche proprio per le splendide musiche.

Capolavoro? Manco per niente, ma è un disco che fa compagnia, che non annoia, le cui visioni, tutto sommato, rassicurano noi poveri mortali. Che comunque, essendo uscito dalle mani di quei Tangerine Dream, ha anche lui quel qualcosa tipo una sorta di (misteriosa) auto-consapevolezza.

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