Sembra incredibile ma ce l’hanno fatta! I Tears For Fears pubblicano il loro settimo album a distanza di ben 18 anni dal precedente! Ai tempi ne erano trascorsi 9 dal disco ancora precedente, chi si sarebbe aspettato nel 2004 che per l’album successivo l’attesa sarebbe stata addirittura doppia…?! Parliamo insomma di una band non molto prolifica, 7 album in 40 anni di carriera sono piuttosto pochi.

Il duo non ha certo bisogno di presentazioni, sono stati un nome importante nella scena pop degli anni ’80, non però quella dolciastra e frivola, piuttosto quella più ricercata e raffinata, quella che si affaccia sulle classifiche ma mantiene un certo decoro e spessore musicale; perché diciamocelo fra i denti, l’alibi dell’essere un gruppo senza pretese viene spesso usato per giustificare arrangiamenti scarni e piatti se non veri e propri obbrobri, quando invece anche la musica più leggera dovrebbe essere fatta con perizia e cura. Per me i Tears For Fears sono forse il miglior gruppo pop di sempre, perché hanno saputo essere orecchiabilissimi curando e studiando però gli arrangiamenti in maniera maniacale, la loro musica è leggera ma nemmeno troppo, in ogni caso rimane sempre “musica”; non è un caso che mettano d’accordo più o meno tutti gli amanti della vera musica e che spesso vengano addirittura infilati (in maniera decisamente forzata) nel calderone progressive, genere con il quale c’entrano ben poco (forse il terzo album vi si avvicina senza però arrivarci).

L’ultimo lavoro datato 2004 però non aveva idee brillantissime, se ne stava nel suo limbo quasi brit-pop e non andava oltre, peccava di varietà, era molto di maniera, buono ma decisamente sotto lo standard della band, quindi qualche dubbio sulla riuscita di questo nuovo lavoro poteva esserci.

Smentiti. “The Tipping Point” offre i Tears For Fears al livello d’ispirazione che ci aspetteremmo. Disco vario e intriso di melodie smaglianti, e perché no, anche palesemente fuori moda. Davvero, non suona come un disco del 2022, se lo fai sentire a qualcuno e non gli dici che è un’uscita di quest’anno probabilmente non lo collocherà nel 2022. Il duo non si vuole piegare alla modernità, la rifiuta, accettarla sarebbe una scelta indegna ed incoerente, perché un nome come i Tears For Fears che ha fatto dell’eleganza il proprio marchio di fabbrica non può chinarsi alle leggi del mercato e al piattume d’alta classifica; il duo suona alla propria maniera, con la raffinatezza che lo ha sempre contraddistinto, e sceglie persino di rimanere vintage senza però nemmeno suonare troppo datato, potremmo parlare all’incirca di “anni ’80 ristrutturati”. Quando ascolti brani come “Break the Man”, “Rivers of Mercy”, l’orchestrale e jazzata “Please Be Happy” e “Stay” ti sembra davvero di essere a fine anni ’80, sono riusciti a riprodurre quelle particolari atmosfere quasi fedelmente, sembrano quasi uscire da “The Seeds of Love”, i suoni sono quelli! Comunque c’è anche qualcosa che suona un po’ più recente e persino più rozzo e meno elegante, e consiste essenzialmente nelle due incursioni elettroniche come Dio comanda, “My Demons” e “End of Night”, che ricalcano i coevi Depeche Mode ma quelli più alternativi e pungenti degli anni 2000. Colpisce anche l’apripista “No Small Thing” che si butta a capofitto in un insolito country d’oltreoceano, con un sound caldo che avrebbe ben figurato in “Raoul and the Kings of Spain”.

18 anni d’attesa ben ripagati. In quale posizione collocare questo lavoro nella discografia del gruppo? Beh, il confronto con i dischi storici degli anni ’80 viene perso ma nemmeno con un grande distacco, è invece una partita apertissima con i dischi degli anni ’90, mentre vince abbastanza largamente con il lavoro del 2004. Vi siete presi tutto il tempo e alla fine avete avuto ragione… però vi prego, non fateci aspettare ancora dei secoli per la prossima uscita!

Carico i commenti... con calma