Un film, talvolta, si lega al ricordo di un periodo della propria vita, a un particolare, una sensazione. Qualcosa comunque di personale.

Un film come questo può legarsi, ad esempio, alla visione di un qualunque tramonto durante il finire di una giornata. Certo, detta così non rende bene. Ma è questo che Days of Heaven rappresenta per me.

I campi di grano, quei tramonti, quei paesaggi, quei colori - omaggio anche alla grande arte pittorica americana, e non a caso il film, premio Oscar alla fotografia, fu girato in 70mm, formato tornato in auge grazie a P.T. Anderson e Tarantino, per esaltarne la resa visiva - mi entrarono nel cervello e, dopo aver visto la prima volta il secondo film di Malick, per una intera estate di diversi anni fa, ad ogni tramonto le immagini di questo gioiello di fine anni '70 mi tornavano regolarmente in mente. In fondo, è questo che il cinema dovrebbe fare: legare indelebilmente l’esperienza visiva ad una sensazione emotiva di chi guarda. E far sì che lo spettatore la porti con sé.

Malick ha creato un nuovo tipo di fare cinema e di espressione dell'unione tra uomo e natura.

Ma questo film, in appena un'ora e mezza, attraversa uno spettro così ampio di sentimenti ed emozioni umane da lasciare ammaliati. E lo fa con quel tono favolistico, quella semplicità narrativa, quella leggerezza e quella grazia che in molti rimpiangono rispetto al Malick odierno, e che imputano al regista texano d'aver smarrito per strada in quei vent'anni intercorsi tra I Giorni del Cielo e La Sottile Linea Rossa.

Altra storia.

A proposito, dopo un esordio entrato nella storia del cinema come Badlands (1973), lavoro epocale entrato nell'immaginario comune di una generazione, oggetto di culto per le successive ed ancora oggi visto come un capolavoro, passarono cinque anni per la seconda prova di uno dei talenti più puri di quella decade che cambiò così tanto per la settima arte. E questo suo secondo film, per me, era ancora più bello del primo, ma già allora Malick non era tipo da un film all'anno. Poi, come detto, passarono addirittura due decenni prima che tornasse a scuotere il cinema americano e non solo.

Quei primi due film sono oggi molto amati anche, se non soprattutto, da chi invece mal sopporta i The Tree of Life e i To the Wonder. Personalmente, penso che il cinema malickiano si sia semplicemente evoluto ed ampliato verso un orizzonte sempre più sconfinato. Allora i confini, seppur molto estesi, rurali e suggestivi secondo la tradizione tipicamente statunitense della frontiera e del vagabondaggio, ancora esistevano, erano in un certo senso fisici. Oggi, invece (e lo si può percepire, specialmente, secondo me, nella più recente e splendida opera malickiana Knight of Cups) i confini non esistono più, il viaggio (o la fuga, come appunto nei primi lavori) non è più attraverso la terra ma solo e soltanto attraverso l'animo e potenzialmente verso l'infinito. Film senza un inizio e senza un finale. Viaggi senza destinazioni esistenti.

Days of Heaven, ad ogni modo, non si può considerare inferiore a nessuna delle opere del regista, e le splendide musiche di Morricone contribuiscono ulteriormente a rendere magiche queste immagini. Il Texas non fu mai così bello come in quei giorni del cielo.

Malick continua a ispirare, ad essere omaggiato, citato, emulato (David Gordon Green, Inarritu, lo stesso Sorrentino...) o semplicemente ammirato da cinefili e registi. Oppure anche mal sopportato, può non piacere, certo. Può anche irritare se lo si mal digerisce. Ma in ogni caso gli va riconosciuto di essersi spinto dove in pochi hanno osato e di essere l’autore di un cinema simile a quello di nessuno prima di lui. Ed uno di quei cineasti autenticamente artisti.

"You’re only live on this earth once. And up to my opinion, as long as you’re around, you should have it nice.”

(Qui - http://screenmusings.org/movie/dvd/Days-of-Heaven/ una serie di screencaps del film)

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