Sarebbe davvero facile gettare fango su questo film, irriderlo, dirne una più grossa dell’altra. Mi è sembrato invece più sensato fare un respiro profondo, rilassarmi e guardare oltre il dito. Lamentarsi della poca definizione delle vicende in un film di Malick sarebbe come trovarsi davanti a un Van Gogh e sostenere che non sia per niente simile alla realtà. Non si può prescindere dalla poetica dell’artista.

È un film di Malick, ma ancor più estremo, ambizioso, difficile, scarno dei precedenti. Forse il titolo, l’argomento generale, gli attori, la fotografia (come dirà qualcuno: bellissima!) possono confondere il pubblico e fargli credere di andare a vedere un film leggero, una cosa alla La La Land. Tutto il contrario. In Song to Song quasi non c’è musica, né diegetica né di commento extradiegetico. E la musica non è per niente la questione centrale. Anche l’espressione «Song to Song» è del tutto metaforica: da canzone a canzone, da un amore a un altro, da una fase della vita a un’altra. Insomma, la vita, le sue altalene, non proprio sensate, non proprio coerenti e progressive. E figurarsi se Malick nel rappresentare la scarsa sensatezza della vita non avrebbe predisposto una messa in scena che sfiora il non-sense, il puro voyeurismo, la circolarità e contraddittorietà più pervicace. Eccolo, un film di Malick ancora più difficile di The Tree of Life o La sottile linea rossa. Non stupisce allora che anche giornali importanti si siano lasciati andare a frasi come: «è quasi una parodia di se stesso», «anche i fan ne hanno abbastanza», «è una noia mortale» e così via. Comprensibile da parte del pubblico meno preparato, non da quella dei critici.

Ovvio che Malick fa quasi apposta, infierisce sulla necessità del pubblico di seguire una storia, una trama, e gliela nega sadicamente. Gli snodi fondamentali delle vicende dei personaggi sono dati per sottrazione, sempre negati a livello visivo. I personaggi ciondolano sulla scena, si coccolano, si fanno le moine, fanno l’amore (vestiti), si guardano, non si guardano più, camminano in luoghi bellissimi, camminano in case bellissime, si baciano, vanno in automobile. Se si togliesse l’audio, sarebbe un film del tutto incomprensibile. Questo può essere visto come un limite, ed effettivamente rende la visione decisamente ostica; ma su una prospettiva più ampia si rivela un clamoroso pregio. Come è possibile? Beh, perché questo è un film epidermico, fisico, tattile oserei dire. E quindi quello che deve rimanere in prima istanza è una sensazione, il vivido ricordo di un’esperienza sensoriale. Così, la ripetitività apparente del film si trasforma man mano in una sensazione: la sensazione di aver vissuto insieme ai protagonisti le esperienze, le effusioni, i giochi di sguardi. Sembra di aver avuto la stessa brezza nei capelli, aver respirato l’aria degli stessi luoghi. Perché il protagonista vero è la vita, la sua dignità, la necessità di non sprecarla.

Questo esito rimarchevole sarebbe un puro esercizio di stile se privo di uno scopo, di una riflessione, di un nucleo concettuale. Non è certamente la musica, la scena rock o i produttori infami. È qualcosa di altissimo, riguarda la vita nel suo complesso. Malick ci fa vedere vite buttate, vite sprecate, private della loro sacralità perché immolate sull’altare di fini non nobili, contingenti, materialistici. Ognuno si piega, si fa violenza perché ossessionato dal successo, dal dovercela fare. E in questo sacrifica se stesso, la propria vita, carne, sangue, tempo, sentimento. Sacrifica il proprio amore, si svuota, fino a diventare una bambola, una conchiglia vuota. Una scelta controcorrente è ovviamente possibile, il cambiamento si può attuare, ma in ogni caso ci sarà da soffrire, più o meno, a seconda delle diverse personalità. Alcuni riusciranno a tornare a vivere, altri no. Ma per tutti appare alla fine evidente che non è possibile sacrificarsi per fini materialistici. L’amore prima o poi si ribellerà, il corpo si ribellerà, l’anima si ribellerà.

Questo discorso non ha nulla a che fare con valutazioni moralistiche: il personaggio interpretato da Fassbender è un pezzo di merda, ma vive spontaneamente, prende ciò che vuole, è generoso, vive la sua eterna pulsione erotica. Ed è una persona felice. Sono le persone intorno a lui a farsi violenza perché desiderosi di sfruttarlo per far carriera. Come dice una prostituta: «Questo è un mezzo per altro». Ma quello che vuole dire Malick è proprio il contrario: non ci sono mezzi e fini distinti, ogni cosa è sia mezzo sia fine, non puoi violentarti strumentalmente per ottenere un qualcosa che poi si rivela irraggiungibile. La vita è in ogni istante e richiede dignità, sacralità, felicità. Sporco di sabbia su un cantiere, ma felice, molto più felice che seduto a un pianoforte, a frustrare le giornate su melodie e diritti d’autore. Meglio che su un palco, ma senza davvero sentirlo tuo.

I difetti del film sono legati soprattutto alle voci fuori campo, che risultano meno efficaci rispetto ad altri esempi nel passato del regista. Gli attori sono perfetti perché incarnano istintivamente i tipi che rappresentano. E infatti non devono recitare molto: Rooney Mara ha davvero poche battute, ma è un personaggio perfettamente definito, trasparente.

7.5/10

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