La parabola creativa degli Afghan Whigs negli anni 90 disegnò alcune delle più fulgide traiettorie musicali di quella decade, oscillando sostanzialmente tra due poli: aggressioni chitarristiche di marca grunge e post-punk (esemplare in tal senso fu "Congregation", ultimo disco per la Sub Pop) e una spiccata sensibilità verso il funky, il blues e il soul. Se il capolavoro "Gentlemen" aveva rappresentato la perfetta e pericolosa osmosi tra questi elementi, i dischi successivi spostarono la bilancia verso l'anima nera della miscela afgana. Dopo il concettoso e tormentato "Black Love", nel 1998 fu la volta di "1965". Presentato con orgoglio da Greg Dulli al momento dell'uscita con pugnaci proclami ("Se quest'anno trovi un disco più rock and roll di questo, ti faccio un pompino in Leicester Square", disse a un tizio del NME), tale opera fu tuttavia inferiore alle attese, e non a caso fece calare il sipario sulle vicende delle parrucche afgane. Più che di rock and roll, si dovrebbe parlare di "soul and roll", visto che il disco venne registrato a New Orleans -  culla del blues e del jazz nonché notoriamente luogo ambiguo e promiscuo, ideale ambientazione per le torbide storie hard boiled di Colui che tra questi solchi si definisce "Dolce figlio di puttana". L'amore di Dulli per la musica nera trovò quindi lo sfogo naturale nel disco che in fondo era sempre stato nelle sue corde, ma che portò a compimento una volta finita l'urgenza del grunge. L'apporto della sei corde di Rick McCollum in particolare è spesso fantasmatico, priva di quel lancinante mordente che costituiva uno dei marchi di fabbrica della band.

Il sound di "1965" è teoricamente spettacolare: fiati, pianoforte e violino si susseguono senza soluzione di continuità ad intarsiare le 11 composizioni qui presenti. Il tutto ispirato alla miscela che aveva reso "Family" dei Satchel un classico degli anni '90 ( Shawn Smith del resto era stato ospite su "Black Love"). Teoricamente, appunto: perché all'atto pratico molti episodi si muovono sui cingoli, e faticano a lasciare il segno. La perizia della band nel districarsi tra partiture sofisticate (come nel tour de force funky-gospel di "John the Baptist", o nel canovaccio cajun di "Cite soleil": entrambi ottimi pezzi) è indiscutibile, e Greg canta con passione e piglio deciso. Ma vi è spesso una patina di mainstream che inficia il tutto ( "66" in particolare), e si nota l'assenza della monumentale drammaticità del passato, anche nei testi del non ancora pingue Greg, a volte arroccati in un manierismo maudit ( "I got the devil in me, girl" è sintomatica. . . ). In particolare, ballate come "Crazy" o "The slide song" sfigurano al confronto con una qualsiasi "My curse", mentre le lascive impennate di "Somethin' hot" e "Uptown again" non hanno più la lucidità di un tempo.
Ma la classe non è acqua, e nel finale di "1965" il biscazziere di Cincinnati tirò fuori un paio di assi con cui salvare la partita. "Neglected" per cominciare, viziosa ballata tra Prince e Marvin Gaye con liriche da gentleman come  "You can fuck my body, baby/ But please don''t fuck my mind" 
Ma è nell'infernale cavalcata rock- free jazz di "Omerta/The Vampire Lanois" che Dulli forgiò l'ultimo gioiello: degna colonna sonora della magica New Orleans del Mardi gras. E poi: quale miglior epitaffio per questo gruppo inimitabile di una frase come "When you're high and lost in the clouds/ Then you know it's time to get down, again" ?

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