Ebbene, siccome l'altra recensione presente su DeBaser parla positivamente (attraverso metafore) di questo disco, io invece racconto "Ammonia Avenue" dalla mia prospettiva di amante deluso. Sì, perchè il gruppo inglese capitanato dall'eclettico sound engineer dei Pink Floyd è stato il mio primo amore musicale, tanto che per molto tempo ho concentrato la mia attenzione esclusivamente su di loro, un pò come fa il buon mien_mo_man su Rundgren e amenità varie.
Quello che più mi ha sconvolto è l'influenza strabordante che hanno avuto gli anni Ottanta non solo su Parsons ma su molti altri artisti provenienti dalla scena degli anni Settanta. Tanto che sono arrivato a concludere, dopo una lunga catena di pippe mentali, che la decadenza musicale odierna non è altro che la continuazione (talvolta rivisitata) di quel decennio. Se ci pensate, la produzione da "studio" nasce negli Ottanta, durante i quali la tecnologia raggiunge l'apice; come pure l'approccio puramente "commerciale" (vedi Mtv) e una progressiva massificazione della cultura. Ciò che piaccia o no, non è un giudizio personale, ma un pensiero sociologico, perchè di fatto, secondo me, oggi siamo più o meno (in peggio) come venti anni fa.
E la cosa che più mi ha rattristato è stata proprio la svolta degli APP verso le sonorità anni Ottanta. Dopo aver amato l'esoterismo di "Tales", la fantascienza di "I Robot", l'orgia rock-orchestrale di "Turn of a friendly card", gi ellepì più venduti si rifanno invece agli schematismi del pop inglese dell'epoca. Quindi ciò che emerge è stanchezza compositiva, se non freddezza, come pure un approccio "plastificato" che mi ha fatto ovviamente storcere il naso. Ad eccetto di "Pipeline", un ottimo pezzo strumentale che tuttavia si rivela un pò freddino, come pure della title track molto struggente, il resto del disco sembra un tentativo di speculare dopo il successo di "Eye in the Sky", in maniera frettolosa. La melodia di "Don't Answer Me" fa sbadigliare; il rock da Fm americana di "Let me go home" mi sembra un pesce fuor d'acqua; gli altri pezzi risultano insipidi, poco ispirati, non lasciano il segno. E soprattutto la fantasia strumentale viene sacrificata al posto di anonime batterie elettroniche e synth ben calibrati, ma glaciali.
Allora deve essere stata così: il successo incredibile del disco precedente li lascia spiazzati, e decidono di mettere da parte le soluzioni originali degli anni precedenti per battere il ferro fin che è caldo. Ciò che risulta non è un disco propriamente "brutto", ma sembra che il gruppo debba comporre e suonare controvoglia qualcosa che a loro non appartiene: scendono quindi a patti col mercato rinunciando al loro stile particolarissimo.
Sono un amante deluso. Perchè avrei preferito ascoltare ancora suite impregnate di mistero, pezzi funk-prog, arrangiamenti classici e strumentali futuristiche. Peccato. Anche se questa recensione probabilmente non attirerà la vostra attenzione (chissenefrega di un disco innocuo dell'84), colgo l'occasione per sconsigliare questo album a chi voglia accostarsi agli Alan Parsons Project. E soprattutto per contrastare l'atmosfera incantata (giustamente) della recensione di Pibroch.
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