Marco è un amico che oggi compie vent’anni. A lui dedico A Day in the Life, un pezzo su cui è già stato scritto di tutto, di un gruppo che non è manco tra i miei preferiti. Il classico pezzo che salta regolarmente fuori in quei giochini stupidi tipo: votate la vostra canzone preferita dei Beatles!

Però, oh boy, le note e la voce di John Lennon sembrano arrivare da un’altra dimensione, continuano a girarmi in testa, al posto di andarsene per tornare da dove sono arrivati. Lasciano una scia, da qualche parte, dentro di me. Come l’attacco di chitarra, il rullare di percussioni di Ringo, e la traccia sonora dell’orchestra, nell’intermezzo e nel finale, a creare quel celebre vortice, salendo di volume dalla nota più bassa a quella più alta. E ancora più alta, e ancora e ancora.

E quel frammento proposto da Paul, che appare casuale, I’d love to turn you on, non è poi così casuale. Sì, i Beatles hanno raggiunto il loro scopo, turn you on, e sono andati anche oltre. Volevano forse comporre un inno al nonsense, ma il nonsense del testo assume un senso compiuto e tutto si risolve, come nella prima strofa.

Le notizie sul giornale. Un incidente d’auto occorso ad un lucky man. Pare che John conoscesse l'uomo di cui canta all’inizio. L'uomo che ha perso la sua testa, il suo cervello i suoi pensieri nello schianto della sua auto. E ne canta con un sorriso.

Mi sembra arrivare da un'altra dimensione il canto di John, la dimensione in cui è passato Marco, giusto vent'anni fa, la sera del 20 agosto 1999. Per me non fu necessario leggere il giornale. Bastò una telefonata.

Quando si usciva in moto, con Marco e gli altri, di solito stavo io davanti, essendo il più lento della compagnia. Un po’ come con i convogli delle navi, l’andatura la fa la più lenta.

In quei giorni ero via. Quella sera Marco precedeva altri due della compagnia. Dissero che ad un certo momento non lo videro più. Perché lui era un po’ più avanti, a prendersi addosso la macchina che invase la sua corsia. I soccorritori trovarono la moto dentro l’abitacolo dell’auto. Cosi Marco perse i suoi pensieri insieme ad altri tre ragazzi. Aveva manco ventinove anni, ed era il più vecchio. Nella macchina un ragazzo di ventidue, e due ragazzine sedicenni.

Oh boy, mio padre accompagnò i suoi genitori alla camera mortuaria. Perché funzionava così. Chiamavano dall’obitorio. Difficile spiegare la scena di quella notte, quando arrivarono tutti i famigliari. Oppure è semplice, perchè funziona che niente ha senso. Semplicemente un giorno nella vita ti trovi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Il vortice finale di A day in the life ha questo effetto di riportarmi la memoria di Marco, insieme a tutti gli altri ragazzi e ragazze che ho conosciuto e che hanno perso i loro pensieri per un incidente, per essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Roberta, Livia, Laura, Cristina, Liliana, Enzo, Giovanni, Federico. Niente ha senso, tranne che i nomi. Puoi non credere a nulla, ma non puoi evitare di credere alla forza dei nomi. Forse non esiste un’altra dimensione, forse Marco non compie vent’anni, da qualche altra parte. Ma i nomi esistono e portano con sé la memoria ed anche una canzone come A day in the life può aiutare ed è l’unico modo certo per metterlo in quel posto al nostro caro vecchio Thanatos.

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