Dedicata a Kurtd. Il capolavoro di collaborazione di John Lennon e Paul McCartney. La summa dei loro talenti e la summa delle anime musicali dei Beatles: folk, psichedelia (vocale), e musica orchestrale. Certamente uno dei loro massimi risultati musicali. Anche le liriche, pur non raggiungendo le vette di “Strawberry Fields” e altre canzoni, per la loro combinazione di parole-musica-cantato, più che per il contenuto, rappresentano un vertice della loro produzione. Le quattro strofe che costituiscono il testo, sono quattro nuclei narrativi completamente diversi, che però formano un quadro globale assurdamente razionale. Come disse McCartney: “E’ un “pastiche”, ma che ha una logica sorprendente”.

1. La prima strofa

La prima strofa tratta la morte di Tara Browne, amico di John e Paul, morto in un’ incidente stradale il 18 Dicembre 1966, a soli 21 anni.

Oggi ho letto la notizia, oh Dio, Di un uomo fortunato che è arrivato a destinazione,E anche se la notizia era piuttosto tristeNon sono riuscito a fare a meno di ridere. Quel “non sono riuscito a fare a meno di ridere” indica la singolarità della canzone: qui non abbiamo un dolore cantato con la semplice malinconia di chi ha perduto una persona cara, ma un dolore affrontato con il palliativo della droga, in questo caso l’erba, come si vedrà in seguito. Ecco allora l’unione del dolente folk acustico (la musica malinconica per eccellenza) e del cantato di John con la voce quasi estatica (ad esprimere lo stordimento della marijuana).Difficile esagerare nel celebrare questa geniale unione di testo e musica – anche da parte di chi ripugna il contenuto. Questa mezza strofa è uno delle cose più grandi mai scritte e cantate da Lennon. Bisogna ricordare che, anche se John decise di trattare la morte dell’amico in questo modo, il suo dolore fu assolutamente reale. George Martin racconta: “Quando ce la cantò per la prima volta, la sua voce era piena di commozione”. E dire questo di uno come John, che si nascondeva dietro una corazza machista, fa davvero impressione. Nel primo verso c’è l’espressione “Oh Boy”, che può significare “Oh Dio”, ma anche “ragazzi”. Entrambe le traduzioni sono buone, perché entrambe vogliono esprimere, in italiano e inglese, incredulità, stupore e, in questo caso, tristezza. La parte successiva della prima strofa descrive l’incidente di Tara.

Ho visto la fotografia, Gli è saltato il cervello nella sua macchinaNon si era accorto che il semaforo era cambiatoLa gente stava lì a fissarloAvevano già visto la sua facciaNessuno era davvero sicuro che fosse della Camera dei Lords

La storia del semaforo è completamente inventata, e l’ultima riga si riferisce al fatto che Tara era figlio di un membro della Camera dei Lords. Quel “gli è saltato il cervello” è la traduzione della frase “Blew his mind” (che in inglese può anche significare “sballare”, e che Lennon usò di proposito, un altro esempio della sua maliziosa e ambigua ironia).

2. La seconda strofa

La seconda strofa non ha nulla a che vedere con l’incidente. Il testo perde la sua unità , ma dal momento che chi canta è fatto, non fa una grinza. Ora l’autore si abbandona ai suoi ricordi.

Oggi ho visto il film L’esercito inglese aveva appena vinto la guerraLa gente si è girata dall’altra parteMa io ho dovuto guardareAvendo letto il libro

Qui si parla del film “How I Won the War” (girato da Richard Lester nell’ Autunno del 1966, dove Lennon recitò una parte). Il film è una satira antimilitarista tratto dal libro omonimo di Patrick Ryan a cui John fa riferimento. Poiché il film uscì solo nell’ ottobre del 67, quattro mesi dopo l’uscita di “Pepper”, all’inizio la strofa non venne compresa. Alla fine della seconda strofa c’è il verso più famoso della canzone, e probabilmente dell’intera discografia dei Beatles: “I’ d love to turn you on”

La traduzione è semplice: “Vorrei mandarti su di giri”. Questa espressione portò alla messa al bando del brano da parte della BBC. Questo verso, che lascia così poco all’immaginazione, è di Paul, e John lo considerava il più importante contributo dell’amico al brano. Quando McCartney lo mise su carta, guardò Lennon e gli disse: “Ti rendi conto di quello che stiamo facendo?”.

Ecco le parole di Paul: “E’ stata una nostra deliberata provocazione. Volevamo spingere la gente all’uso dell’erba, perché ci portava più vicini alla verità, non per il gusto dello sballo fine a se stesso”.

Se è vero che questo verso è davvero discutibile, nella canzone sta benissimo. L’autore ha affrontato un dolore attraverso la droga, si è abbandonato ad un ricordo, e ora invita l’ascoltatore a stordirsi, come sta per fare, di nuovo, lui.

3. Il crescendo orchestrale

Come si legge in ogni libro sulla storia dei Beatles, c’era un “gap” di 24 battute tra l’ultima frase di Lennon e il bridge di McCartney (vedi paragrafo successivo) che George Martin non sapeva come riempire. Inizialmente lo si riempì con delle note di piano. Poi McCartney ebbe l’idea dell’orchestra.

Ricorda il produttore: “Chiamammo 40 musicisti. Prima scrissi una partitura sui generis scrivendo due note: una all’inizio e una alla fine del gap. Poi dissi ai musicisti: “Partite dalla prima nota e alla fine delle 24 battute trovatevi tutti sull’ultima nota”. Poi aggiunsi, in modo molto vago, quale doveva essere la nota a cui dovevano trovarsi ad ogni battuta. Ovviamente, davanti a tale vaghezza, mi guardarono come se avessero davanti un pazzo”.

Eppure la cosa funzionò. Quel crescendo, anche se fu messo solo come riempimento musicale, si innesta perfettamente nella canzone, perché è messo subito dopo l’invito allo sballo di “I’d love to turn you on”. Il crescendo è la versione musicale dello sballo al quale l’autore si è abbandonato.

4. Il bridge di McCartney

Subito dopo il crescendo orchestrale, la canzone riparte da zero. C’è solo il piano e non c’è più il cantato estatico. Anzi non c’è neppure melodia. Le parole sono di Paul, e da lui sono cantate. Come racconta Lennon: “Le mie tre strofe erano venute senza problemi. Mi serviva un bridge. Arrivò Paul con questo suo piccolo frammento che non riusciva a mettere da nessuna parte. E allora glielo feci aggiungere”.Mi sono svegliato, uscito fuori dal lettoTrascinato un pettine tra i capelliSceso giù, bevuto un caffèAlzando lo sguardo, mi sono accorto che ero in ritardoTrovato il cappotto, afferrato il cappelloPreso l’autobus al volo,Andato al piano di sopra, ho fatto una fumataHo parlato con qualcunoE sono andato in un sogno Anche qui la logica è perfetta. L’autore, dopo lo sballo, è tornato lucido dopo una notte di sonno; è uscito di casa, ma poi è tornato a sballarsi – con una “fumata che lo ha portato in un sogno”. Una strofa che sembrava non avere nulla a che fare con la canzone, in realtà vi si innesta, ancora una volta, perfettamente.

5. La terza strofa

Subito dopo la frase “sono andato in un sogno”, ritorna in scena Lennon con la sua voce estatica che canta “ah….”, a rappresentare il “sogno” in cui l’autore è precipitato di nuovo. Poi la terza strofa:Oggi ho letto la notizia, oh Dio, Quattromila buche a Blackburn, nel Lancashire.E anche se erano piuttosto piccoleLe hanno dovute contare tutteOra sanno quanti buchi sono necessari Per riempire l’Albert HallL’autore prende due notizie del giornale e le appiccica insieme.

Prima fa riferimento ad un articolo del Daily Mail del 17 gennaio 1967, in cui si parlava delle circa quattromila buche trovate nelle strade di Blackburn, nel Lancashire, assestando la sua ironia sul fatto che c’era stata gente che era anche andata a contarle. Poi gli appiccica due versi che sono un nonsense creato unendo il verso “Now they know how many holes it takes to” con un trafiletto che parlava della Royal Albert Hall. La parola “riempire” (“fill”) fu suggerita a Lennon da Terry Doran, collaboratore del gruppo.

Ci si può domandare perché John scelse questa insignificante (benché curiosa) notizia delle buche di Blackburn. La tentazione di dire che era un richiamo al fascino dell’eroina in vena è molto forte, anche se Lennon non aveva ancora iniziato a bucarsi – cominciò a farlo qualche tempo dopo, spinto dagli esperimenti avanguardisti di Yoko Ono.

Le provocazioni dell’autore John/Paul andarono, dunque, ben oltre l’erba.

Le “buche” ebbero delle conseguenze su “Pepper”, perché, circa un mese dopo, Paul userà di nuovo la parola “buco” e lo unirà ad una parola molto meno innocente di “fill”, e cioè “fix” (che in slang significa “bucarsi”) creando un titolo doppio-senso tra i più noti della musica popolare: “Fixing a Hole”.

6. Il finale

Dopo il secondo invito allo sballo, c’è il secondo crescendo orchestrale. Il Mi Maggiore che segue il secondo crescendo venne fuori suonando all’unisono tre pianoforti.Il frammento finale, battezzato “The Inner Groove”, ha una storia particolare e la si può comprendere solo pensando a come funzionano i vecchi vinili. Riporto da Wikipedia: “Il groove finale era inciso nel solco di fine facciata che la puntina quindi percorre a ripetizione finché non viene sollevata; ovviamente questo solco è di norma vuoto. L'idea era quella di riempire tutti gli spazi possibili anche con una gamma di suoni diversi dal normale. Fu una cosa fatta per puro divertimento, sullo stile di Pet Sounds dei Beach Boys. Nell'edizione su CD, che al contrario del 33 giri si ferma automaticamente al termine della riproduzione, la traccia viene ripetuta alcune volte per simulare l'effetto originale”.

7. Conclusione

Sulla grandezza della canzone c’è davvero poco da dire. “Sentirla fu pazzesco”: non è il commento di un fan adolescente dei Beatles, ma di un genio musicale, noto per il suo autocontrollo e la sua freddezza, come Robert Fripp.

Mentre “Strawberry Fields” non ha nulla a che fare con la droga, “A Day in the Life”, è una celebrazione dell’ uso dell’erba, e anche d’altro. Benché il suo messaggio centrale sia repellente, le opere d’arte non vanno giudicate solo per quello che dicono, ma anche per come lo dicono. Ed “A Day in the Life” è un’opera d’arte.

Come dice Mark Hertsgaard: “Se Lennon e McCartney volevano davvero mandarci su di giri, con questa canzone ci riuscirono”.

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