Abbatia Scl. Clementis” viene registrato nel 1992 ed è il secondo full-lenght targato The Black.
La storia del mastermind Mario Di Donato, come detto in altre circostanze, parte da lontano, addirittura dagli anni settanta. Archiaviate le esperienze Unreal Terror e Requiem, Di Donato seppe stupire al termine degli anni ottanta (era il 1989) con il mini album “Reliquarium”, atto primo del nuovo progetto The Black, confezionando un metal dal piglio sperimentale, caratterizzato da un chitarrismo free (fra heavy metal, doom, e progressive) e da un salmodiante recitato in latino: un metal tributario delle tradizioni settantiana ed ottantiana (Black Sabbath e Judas Priest i nomi che più di altri sono richiamati alla mente), ma pervaso da inquietanti visioni dark e da un misticismo che ha subito permesso di accostare il nome di Di Donato a quelli dei protagonisti della grande tradizione dark-metal italiana (Antonio Bartoccetti e Paolo Catena in primis).
Un percorso giunto a pieno compimento con il primo album ufficiale della band, quell' “Infernus, Purgatorium et Paradisus” (del 1991), metallica rivisitazione della “Divina Commedia” di Dante Alighieri, e che ad oggi è da considerare fra i maggiori capolavori (se non IL capolavoro) della carriera di Di Donato.
Abbatia Scl. Clementis” aggiusta il tiro e ci consegna un sound più compatto e orientato all'impatto fisico: la componente doom viene fortemente ridimensionata, mentre le suggestioni darkeggianti sopravvivono in un paio di interludi strumentali (ad appannaggio delle sole tastiere) e nelle liriche di Di Donato, ancora in latino.
Ovvio che l'approccio di Di Donato è sempre molto personale, e non è un caso che il titolo dell'album prenda ispirazione da una visita all'Abbazia S. Clemente a Casauria, a dimostrazione di come l'artista abruzzese rimanga saldamento legato al patrimonio artistico e culturale della propria terra (ricordiamo che Di Donato è anche pittore): “L'aria mistica e storica che la circonda”, spiega Di Donato, “sembra voglia richiamare le alterne vicende vissute tra ricchezze, devastazioni, rifacimenti, spendore e decadenza). [...] Da questi marmi e queste pietre,” continua l'autore, “ho ripreso molte frasi in latino, e le ho inserite nei testi delle canzoni di questa mia opera con l'intento di sottolineare l'orientamento del progetto “THE BLACK” sempre propenso ad amalgamare arte italiana/dark metal).
Passiamo quindi ai contenuti dell'album, otto pezzi per appena mezz'ora di musica: accanto a Di Donato, troviamo Enio Nicolini al basso, che già militava negli Unreal Terror e che accompagnerà l'amico nella sua avventura musicale fino ai nostri giorni. Dietro alla batteria, invece, siede la new-entry Emilio Chella, il cui drumming preciso e forsennato inciderà non poco sulle sorti di un album che, come si diceva in principio, suona meno doom e molto più heavy, a tratti sfiorando anche i lidi del thrash-metal più schizofrenico (primissimi Megadeth per intendersi), ovviamente un thrash arcaico e illuminato dall'estro chitarristico di Di Donato, ottimo come sempre, ma che sembra disporre di spazi minori per l'improvvisazione, costringendosi in un formato canzone recuperato per l'occasione.
Quindi un album meno visionario e sperimentale, bensì sempre più saldo su solidi binari pristiani ed influenzato da un certo power-metal teutonico di cui Emilio Chella stesso è stato direttamente interprete all'interno della band tedesca Keenig.
La prima parte dell'album quindi si muove sulle coordinate di pezzi veloci, dominati dal chitarrismo tagliente di Di Donano e dalla doppia-cassa di Chella. La personalità dell'artista abruzzese emerge comunque grazie alle aperture oblique della sua chitarra (che di tanto in tanto, fra un riff roccioso e l'altro, trova l'antica ispirazione, soprattutto in sede di assolo o nelle introduzioni dei brani) e da un recitato in latino che ben si amalgama a brani scartavetranti e ricchi di cambi di tempo. E tutti questi elementi possono essere rinvenuti tranquillamente nei primi quattro brani “Voraginis” (aperta dal piano), la violenta “Missa Est”, la sinuosa “Rex Inferi” e la terremotante “Mater Immortalis”). Da sottolineare l'alto tasso tecnico professato dai tre musicisti.
Meglio ancora la seconda parte dell'opera, aperta dalle tenebrose evoluzioni dell'organo di “Post Communio”: i brani che seguono sono un gradito ritorno ad uno stile più propriamente “The Black”, senza comunque che sia sfiorata l'aura di allucinato misticismo che pervadeva (e che pervaderà) gli altri lavori messi a segno dalla band. In ogni caso la title-track è un gran bel pezzo, sicuramente fra i migliori mai scritti da Di Donato, e il suo ritornello cantinelante (sconquassato dalla doppia-cassa apocalittica di Chella) riconduce la musica dell'abbruzzese a quell'atmosfera di oscura epicità che lo ha reso un nome di rilievo nel panorama dell'heavy metal tricolore. I ritmi rallentano ulteriormente con l'oscura “Testamentus”, l'episodio più lungo e più propriamente riconducibile alla tradizione doom. Chiude le danze l'incalzante “Oremus”, delirante rivisitazione dell'heavy-sound saggiato con i primi brani dell'album.
Se quindi da un lato finiamo per registrare l'affievolimento del potere evocativo tipico della visione artistica di Di Donato, non possiamo dall'altro non sogghignare soddisfatti innanzi ad un buon album di heavy metal, sì classico, ma sul quale riluce lampante la firma di uno dei più grandi autori del metal nostrano.
Carico i commenti... con calma