Il miglior album di doom classico partorito nel terzo millennio?

A parere del sottoscritto: yes! Ma a stupirci è il fatto che a pubblicarlo è quel “vecchietto” di Mario Di Donato, giunto con i suoi The Black alla settima prova in studio, un bel po' di anni dopo quel succulento doppiettone che fu “Peccatis Nostris/Capistrani Pugnator”.

Il Marione nazionale si ripresenta con un altro mastodontico lavoro, forse il suo migliore, sicuramente il più ambizioso della sua carriera. “Gorgoni” è un'opera monumentale che affonda gli artigli direttamente nella mitologia greca, andando a trattare delle tre mostruose sorelle Medusa, Steno e Euriale, come del resto già ci anticipa la suggestiva copertina dell'album, curata ovviamente da Di Donato, che ricordiamo essere anche un pregevole pittore.
Un album mostruoso, “Gorgoni”, non solo per le tematiche trattate, ma anche per le dimensioni, visto che consta di ben diciassette tracce per una durata complessiva di quasi ottanta minuti: un dato che potrebbe spaventare chiunque, ma non gli estimatori di un genere come il doom, e tanto meno gli estimatori dell'artista abruzzese.

In tanti anni di carriera, Mario Di Donato non sembra perdere lo smalto: se da un lato è vero che la sua figura, divenuta nel tempo leggendaria in seno all'underground metallico nazionale al pari di nomi come Paolo Catena ed Antonio Bartoccetti, non è associabile a veri e propri capolavori capaci di capovolgere le sorti della storia (pur sempre derivativo ci suona il suo heavy/doom di matrice sabbathiana), dall'altro è impossibile negare una incredibile costanza nella qualità delle sue opere. “Gorgoni”, come i suo predecessori, non sconvolgerà la vita di alcuno, ma delizierà i palati di coloro che ancora hanno la nostalgia di quella sorta di “metallo oscuro” che imperversava negli anni settanta ed ottanta in terra italica, e che costituisce un'esperienza irripetibile nella storia del metal tutto.

Prendiamo ad esempio l'introduzione “Proludium”: quella liturgia di organo che non si sentiva da anni, in grado di spazzare via con un soffio vagonate e vagonate di merda gotica partorita negli anni novanta e duemila. Un organo magico, polveroso, che poteva scaturire solamente da un'Italia malata, frustrata, assediata da secoli di paure ancestrali, superstizioni d'ogni specie ed insano ammorbamento cattolico (memento mori!): come dire, non ci volevano le nebbiose brughiere inglesi o i fitti boschetti della Norvegia, ma solo la frusta ed il bastone oppressivo ed implacabile del Vaticano! Ma attenzione: l'organo viene incalzato da ipnotici contrappunti di chitarra elettrica e basso, che poi sfumano in inquietanti cori angelici. In nemmeno tre minuti sta tutta la magia di un metal orrorifico che non teme di coniugare la pesantezza di partiture elettrificate alla magia del miglior progressive d'annata, fusi in modo inscindibile nel DNA di questi artisti, formatisi in tempi in cui la diversificazione dei generi non si faceva così esasperante come negli anni a seguire.

Ed è solo il principio: che il sabba nero abbia inizio! Le chiatarre robuste di Di Donato, il solido comparto ritmico degli inossidabili Enio Niccolini (rotondissimo e sentenziante il suo basso) e Gianluca Bracciale (implacabile nei suoi down-tempo quanto fulminante nelle frequenti accelerazioni, nelle quali non viene sdegnata neppure la doppia-cassa!). Un plauso in particolare ai coinvolgenti ed accalorati assoli di Di Donato, più ispirato del solito; quanto alla sua prestazione vocale, come si sa, non ci troviamo innanzi ad un Messiah Marcolin, ma il suo recitato in latino è come sempre suggestivo, affascinante, capace di donare un'aura arcaica e misterica al suo proverbiale metal mentis.

L'indubbia tecnica del terzetto non è la sola arma vincente di un'opera che, nonostante il pantagruelico minutaggio, non riesce a stancare nemmeno un attimo. Questo perché i brani non si fanno mai asfissianti (cosa comprensibile visto che Di Donato appartiene pur sempre alla vecchia scuola che non ama abbandonarsi a gratuiti eccessi per scioccare l'ascoltatore), ma sempre saldi sulla sella di un heavy/doom con i controfuochi che, pur conservando il formato canzone, è continuamente illuminato dall'estro chitarristico dell'artista abruzzese, una fucina di riff imponenti e guizzi d'un isterismo che tradisce la sua verve progressiva. Ovvio che sopra questa struttura si costruiscono tutte quelle variazioni di tema che rendono unico ed inimitabile un genere come il doom, nel quale, pur non succedendo un cazzo, pare che ogni cosa si possa materializzare da un momento all'altro. Ed in effetti tutti i brani se la giocano sull'abile alternarsi di riff azzeccati, fasi cadenzate e bombastiche evoluzioni, senza ovviamente perdere di vista la melodia. E su queste basi, si diceva, ecco che si schiude un assolo che dona a noi la luce, oppure il tutto collassa in un marciume di chitarra che farebbe inorridire il più malvagio dei blacksterini, o, ancora, ecco che si spalancano le porte dell'orrido con il rimbombare di campanacci a morto, terribili voci velocizzate o rallentate, trovate sceniche degne di Houdini!

Prendete i quasi sette minuti di “Steno” o gli otto di “Occumbere Mortem” (che sublime titolo!) e dite se non ho ragione: in questi casi casi si vede che l'attitudine progressiva è presente ma schiacciata dal Verbo sabbathiano, annerita da quelle atmosfere horror metal che non possono richiamare alla mente i Mercyful Fate più sepolcrali, soprattutto per gli orripilanti falsetti o le voci effettate: musica che non aveva bisogno di orchestre e cori interi per incutere terrore ed angoscia, ma solo dello sfrigolio delle chitarre, dell'incombere tenebroso del basso, dello zoppicare incerto della batteria.

Non mancano vere e proprie silurate, come “Pegasus” e “Serpentis”, malefici ibridi di Motorhead e Judas Priest, episodi non certo memorabili, ma pur sempre funzionali a spezzare un discorso fatto di nebbiose ambientazioni.

Nebbiose ambientazioni: interessante a tal riguardo l'ultima porzione dell'album. La strumentale “Altamir”, vero gioiello progressivo dell'opera, apre un ulteriore passaggio perlustrativo all'interno del percorso intrapreso: le sue tastiere celestiali, evocanti una perversa new-age dell'Oltretomba, si librano e danzano in volo azavorrate da badilate di chitarra che riportano negli Inferi un brano che poteva essere scritto nel 1976 da un Battiato posseduto dal Diavolo. Il passaggio successivo saranno i quattordici minuti della strumentale “Metamorphoses”, suddivisa in quattro movimenti, uno più affossante dell'altro, tanto che pare di ascoltare gli Ufomammut, con tutta la loro forza e i loro suoni compressi tipici della nuove generazioni. Nel dettaglio:

1. Torna un organo che pare suonato dal fantasma di Charles Tiring dei defunti Jacula; seguono il rantolo di un basso distorto, lo scricchiolare di una chitarra narcolessica, il frastuono di campane di bronzo polveroso, una doppiacassa scalcinata….

2. Sale dalla critpa sotto il vostro letto (di cui ignoravate l'esistenza) il roboare del solito basso distorto incalzato da un drumming rituale che si tramuta di colpo nel passo elefantesco di un pachiderma schiacciato dalle colate laviche di una chitarra sull'orlo della putrefazione;

3. Rivive l'organo per un breve interludio: è la volta di una temibile marcia chitarristica che alza (di poco) la tensione, portandosi avanti senza grandi evoluzioni per un'altra manciata di minuti;

4. Lo sfiatare infiacchito di un flauto è il preludio all'atto finale, che ci trascina per sempre nell'oblio al suono marcio di arpeggi elettrici, piattoni fracassati al rallentatore e riffoni incatramati, via via impreziositi da pseudo assoli suonati da una sorta di Jimi Hendrix imbalsamato.

Che dire, la vecchia scuola è pur sempre la vecchia scuola!

Carico i commenti...  con calma