Spesso in Debaser ci si accorge di un artista all'ottantesima recensione inviata; spesso è la quantità ad imporre la qualità. E se, come leggevo nella recensione di “Park of Reason” saremo in tre a conoscere Paul Chain, ad apprezzare Mario “The Black” Di Donato non saremo più di due. Ma tranquilli, non intendo intasare la rete di recensioni sui lavori del misconosciuto musicista abruzzese: per una presentazione esauriente dell'arte del Marione nazionale mi accontento di riallacciarmi alla mia recensione di “Golgotha”, non perdendo l'occasione per reclamizzarla. Tuttavia, probabilmente risvegliato dalla recente pubblicazione di “Gorgoni”, uscita che mi ha spinto a rispolverare i vecchi lavori della band e a riscoprirne altri trascurati in passato, mi sento di dover spendere ulteriori parole su questo imprescindibile protagonista della scena metal nostrana, abile pittore di inquieti scenari, che fra sacro (molto) e profano (poco) ha saputo marchiare a fuoco il cammino del metal italiano negli ultimi quarant'anni.

Lo faccio parlando di un lavoro assai recente, questo “Peccatis Nostris/Capistrani Pugnator”, uscito nel 2004 su vinile sotto forma di due album separati, e su cd come doppio album. Quindi, al di là che il tempo fugge e a volte si ha necessità di ottimizzare, non è nemmeno del tutto fuori luogo una trattazione unica di questi due lavori che in effetti sarebbe più corretto vedere come due episodi distinti ed indipendenti.

Interrompendo un trend, accentuato dal buon “Apocalypis” (del 1996) e proseguito degnamente dal già citato “Golgotha” (del 2000), in cui l'heavy doom del Nostro si è andato ad ammantare sempre più massiccaimente di tinte progressive, il doppiettone di cui vi parlo oggi ricolloca il sound della band sulle salde coordinate di un più classico heavy metal, riscoprendo le sue origini in quel magma metallico che nasce dai fermenti chitarristici di Iommi & compagnia per abbracciare le spigolosità di formazioni classiche del genere come Judas Priest ed Iron Maiden. Insomma, se le divagazioni progressive e sinfoniche degli album appena precedenti avevano smosciato le palle a molti puristi, di certo “Peccatis Nostris” e “Capistrani Pugnator” andranno ad allietare le orecchie dei patiti del timpano rovente. Ma procediamo con calma.

“Peccatis Nostris”, come già s'intuisce dal titolo, è la rivisitazione “blackiana” dei sette peccati capitali, e il quadro ritratto in copertina, “Inferno Canto XXII – I Demoni” dello stesso Di Donato, non poteva che essere la degna rappresentazione del concept. La musica torna ad essere violenta, l'attitudine tipicamente sulfurea data dall'impostazione essenzialmente doom viene scossa da repentine accelerazioni che vanno a disegnare con vividi colori (rosso e marrone per lo più!) la discesa negli Inferi che il concept intende trattare.

La superba opener “Prigritia”, per esempio, ben descrive questo progressivo franare fra le rocce, il fuoco ed il fango dei sette gironi danteschi che uno dopo l'altro verranno rappresentati nell'opera: il terremotante refrain a doppia voce recitante “Hoc Autem Praecipio”, incalzato dalle chitarre taglienti e dai tempi sostenuti della batteria (elementi che contraddistingueranno la seconda porzione del composito brano, il cui incipit si era mosso all'insegna di riff lenti e strascicati e salmodianti versi in latino), è la perfetta trasposizione in musica del senso di caduta libera che la band vuole inscenare: un precipitare travolgente per scoscesi declivi peccaminosi diretti verso un mondo buio e privo di redenzione.

Generalmente i pezzi vivono di rallentamenti e velocizzazioni, prima ancora che evolversi nel tipico formato canzone: dimenticate quindi cori epici e ritornelli accattivanti, l'album è ancora il frutto delle libere divagazioni chitarristiche di Di Donato (ottimi come sempre i suoi ispirati assoli), rafforzate da un reparto ritmico di tutto rispetto: il basso rotondo di Enio Nicolini e la solida batteria di Gianluca Bracciale, che non rinuncia alla doppia cassa laddove vi sia bisogno (un esempio su tutti: la possente cavalcata che risponde al nome di “Superbia”).

Nel complesso l'album si fa apprezzare, anche se rimane macchiato dal peccato originario di voler aderire cocciutamente ad una visione anacronistica/stilisticamente conservatrice che finisce per svilire quella che è sempre stata la ragion d'essere della band, ossia quella di saper forgiare una fascinosa e fantasiosa declinazione dell'heavy-metal classico: insomma, siamo nel 2003, ma il lavoro potrebbe esser uscito vent'anni prima, tanto ci appare come un monolitico revival di quello che il genere ha saputo produrre negli anni settanta e ottanta, prima ancora della rivoluzione thrash che tutto sconvolse (anche se qua e là si percepiscono le tracce del passaggio di un lavoro fondamentale come “Kill'em All”). Con un pizzico di rammarico, purtroppo, per l'affievolimento delle componenti più propriamente progressive ed atmosferiche (se si fa eccezione della fugace comparsata dei cori operistici nella conclusiva “Ira”, che fra l'altro ci regala nel finale il momento più tirato dell'album, come ovvio che ci si aspetti dalla rappresentazione del peccato specificatamente descritto). Se ci mettiamo inoltre che il cantato di Di Donato (di certo non un cantante eccelso!) ci appare meno ispirato del solito, capiamo che l'opera in sé approda tranquillamente alla sufficienza, ma senza mai sfiorare livelli superlativi.

Altra storia per “Capistrani Pugnator”, di tutt'altra sostanza, e che certamente si sarebbe meritato una trattazione a parte, se non altro per evidenziare e dare il giusto spazio alla splendida copertina: un ottimo autoritratto in pastello dello stesso Di Donato, ispirato dalla statua calcarea “Il Guerriero di Capestrano”, rinvenuta negli anni sessanta in provincia di Pesaro, a dimostrazione del legame non solo emotivo, ma anche artistico, che il musicista ha con la propria terra.

L'album consta di soli quattro pezzi (se si fa eccezione della breve introduzione “Kardiophylax”), tutti assai lunghi, che mettono in bella mostra non solo le capacità tecniche dei tre musicisti (qui più compatti ed affiatati che mai), ma anche l'eccelso stato di ispirazione che questa volta ha mosso la penna di Di Donato. La formula rimane sostanzialmente la medesima: un power-doom misticheggiante, arcaico, spirituale, in altre parole il tipico "metallo mentis" di matrice blackiana, così tradizionale, ed al contempo così libero da ogni schema precostituito; ma qui si respira un'aria diversa, i brani brillano di una maggiore personalità, hanno un che di maestoso, monumentale, una magia che è difficile da descrivere a parole.

La stessa prova dietro al microfono di Di Donato ci appare più convincente, e come se non bastasse, il Nostro viene spalleggiato dai camei di vecchi amiconi del calibro di Eugenio Mucci (ex Requiem, formazione in cui aveva militato lo stesso Di Donato) e di Ben Spinazzola (che ha prestato l'ugola nella prima incarnazioe degli UT), pezzi da novanta della nostra storia. Da pelle d'oca l'epico controcanto del primo nel ritornello di “Date Hilli Honorem”; da orgasmo l'intenso intervento vocale del secondo nella seconda strofa della title-track.

E proprio nei quattordici minuti della title-track, summa della poetica epica e visionaria della band, rinveniamo la vetta di un'opera che comunque sa brillare in ogni suo frangente. Nei sali-scendi emotivi della titletrack, che da sola vale l'acquisto dell'intero doppio album, rinveniamo un vero manuale del doom metal: nelle arcaiche e salmodianti armonie dettate dalla chitarra di Di Donato, nel mortifero break centrale, dominato dal rimbombante marciare dei tamburi, nella possente coda strumentale, infestata da evocativi ed ipnotici riff di chitarra ed una spietata doppia-cassa, tragica conclusione culminante in una accelerazione al cardio palma. In questi quattordici minuti si riscatta il Mario Di Donato eroe del doom nazionale (e non solo): una prova maiuscola servita per tutti coloro che ancora nutrissero dei dubbi nei confronti di uno dei chitarristi di maggior talento del panorama metallico nostrano.

Insomma, un gioiellone (alla fine il tutto sfiora gli ottanta minuti!) che i patiti del genere non devono in nessun modo trascurare!

HOMO
IN PERICLUM SIMUL
AC VENIT CALLIDUS,
REPERIRE EFFIGIUM
QUAERIT ALTERIUS
MALO

Elenco e tracce

01   Pigritia (06:50)

02   Avaritia (05:22)

03   Superbia (08:20)

04   Luxuria (04:40)

05   Gula (04:40)

06   Invidia (03:23)

08   Kardiophylax (01:58)

09   Praetutii (07:58)

10   Miserere (06:14)

11   Date illi honorem (04:54)

12   Capistrani pugnator (14:00)

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