Non aprite fino al giorno del Giudizio.
Calzerebbe a pennello come titolo per un horror di serie “Z”; è in realtà quello di un bellissimo episodio della saga del revival garage-punk ambientato negli splendidi anni Ottanta.
Protagonisti i Chesterfield Kings, banda di malnati capitanati da Greg Prevost.
Greg Prevost è uno di quei personaggi fondamentali nell'epopea del genere, minore ma indispensabile allo sviluppo avvincente della storia. Di certo non è un Greg Shaw o un Rudi Protrudi e tanto meno un Leighton, ma cosa sarebbe stato il garage-revival senza figuri come lui, Shelley Ganz, Mike Stax o Lee Joseph? Di certo, fremiti di eccitazione e litri di sudore risparmiati, e fine settimana buttati al cinema o a teatro invece che a pogare come un coglione di fronte ad un giradischi.
Per cui, sempiterna lode a Greg Prevost e a tutti gli indimenticati eroi della mia adolescenza, spesa a massacrarmi i timpani a suon di garage-punk, la musica più bella che ci sia.
Ci sono questi tipi in giro per il mondo che se ne fregano di fare musica per portare a casa quattro soldi e campare la vita. No, per loro i fatidici tre accordi, uno dietro l'altro, non sono semplicemente un mestiere o un'arte; sono piuttosto la vita, e senza i Chocolate Watchband questa non avrebbe un senso.
I Chocolate Watchband e pure i primissimi Rollig Stones, per i Chesterfield Kings: guardateli agli esordi e non potrete fare a meno di esclamare che, cazzo, questi hanno preso la macchina del tempo e sono sbarcati al tempo in cui Jagger, Richard (ancora senza esse) e la buonanima di Jones si massacravano di pippe a suonare standards blues nelle cantine.
Per cui, l'esordio dei Chesterfield Kings è un fulminante concentrato di covers dei suddetti Chocolate Watchband, Sonics ed altri oscuri gruppi che conoscono solo loro: narra la leggenda che i ragazzi si conoscono ad un mercatino di dischi usati, per cui cosa ti puoi aspettare da gente del genere che decide di mettere su una banda? Che tirino fuori un disco come «Here Are The Chesterfield Kings».
Ai soliti criticoni il disco non piace perché contiene solo covers e questo genere di proposte non ha futuro e blablabla. Per cui i Kings fanno passare qualche anno e se ne vengono fuori con «Stop» che contiene anche brani originali, ma è come se fossero covers, talmente convinta e ostinata è l'adesione ai dettami del sixties-garage. I criticoni li definiscono ottusi, ma è un altro bellissimo disco, sempre nel solco del garage che non si discute ma si ama e che, a me, mi ribadisce che pogare come un coglione davanti ad un giradischi è mooooolto meglio che buttarsi in un cinema a vedere «Le Relazioni Pericolose».
Poi arriva «Don't Open Til Doomsday».
Copertina tamarrissima, come quella di «Still Standing» di Jason And The Scorchers più o meno; cambia l'immagine, e forse è perché Greg la notte prima di piazzarsi davanti all'obiettivo dorme storto e si sveglia con un diavolo per capello; cambia il suono, e forse è perché fa il suo esordio alla chitarra il buon Walt O'Brien.
Ora, Walt O'Brien è, sputato, Johnny – e non vi azzardate a chiedere «Johnny chi?».
Non si sa come, quelle foto le vede anche Dee Dee, che si trasforma in Dee Dee King, regala ai ragazzi «Baby Doll», ci si piazza pure ai cori, ed il gioco è fatto: i Ramones che rifanno «Nuggets» sono uno sballo.
Tra i rifatti, pure T-Bone Burnett ed i Kinks, per cui il suono è cambiato per davvero. Ci sta, nei solchi, tanto garage contaminato da una pesantissima attitudine poppy che dire piacevole è poco, ed un brano come «Selfish Little Girl» – originale, cari i miei criticoni del cappero – è da togliersi il cappello ed annoverare di filato tra le pepite degli anni Ottanta: pure i Byrds che rifanno «Nuggets» sono uno sballo.
Il suono è cambiato, vero, ma il garage è una fede. Per cui, i ragazzi vanno a pescare un gruppo che conoscono solo loro (chi cazzo sono i Blue Stars?) e mettono in scaletta un pezzo come «Social End Product», la versione zozzona di «I Ain't No Miracle Worker»: distorsore a manetta e riff da paura, sezione ritmica che pesta furibonda, e Greg che tira fuori una voce che pare Iggy Pop ai tempi di «TV Eye». Diamine, che pezzo: uno di quelli che, se mai doveste fare una cassettina con i dieci pezzi più devastanti del garage-punk, questo ce lo dovete mettere dentro per forza, costi quel che costi.
Nonostante tutto, pure questo disco se lo cagano in pochi, ma chissenefrega.
Non certo io, che continuo a pogare come un coglione davanti al giradischi, ogni volta che piazzo sul piatto gli Unclaimed o gli Yard Trauma.
Non certo i Kings, che da trent'anni a questa parte continuano a macinare riff su riff per chi, come loro, ha una sola, indubitabile, immarcescibile fede da professare fino al giorno del Giudizio ed oltre. Il garage-punk.
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