"Semi-serious music by musicians who only take themselves semi-seriously"

E CLAUDIA?
Lo confesso, la copertina ha fatto metà del lavoro: mi piacevano già prima che il disco iniziasse a roteare.
Nel booklet e nella fascia cartonata altri piccoli indizi: quelle calze e quelle caviglie non potevano tradire le attese.
E poi le facce. Che tipi.
Si, ma Claudia? Nell’improbabile foto di gruppo (cinque abiti addosso al manipolo meno cool che si ricordi) si intravedono le sue mani, intrecciate, e una porzione del suo corpo, in nero abito lungo.
Eppure il suo nome oltre che in quello del gruppo appare tra i credits, in qualità di produttrice a fianco del leader John Hollenbeck. Che le porge il suo braccio anche nella foto.
Ed è bello così, che resti un mistero.
Chiunque sia Claudia son certo che mi piacerebbe anche lei.

SEMI-FORMAL: PROPRIO COSI.
Semi-formal è il terzo disco di questo atipico quintetto.
Il precedente, “I”, (2003) scopro che stava in qualche classifica USA tra i migliori 15 dischi jazz.
Ho poi preso anche quello. Ma questo mi piace di più.
New York, post qualsiasi cosa.
Jazz? Si, chiaro. Ma anche una versione verosimile di un’attuale musica “da camera” (com’è la camera di Claudia?)
E poi qualcosa che ha a che fare con le venature di un incrocio tra una moderna attitudine “progressive” (nel versante più vicino all’art rock) e le inclinazioni meno ostentatamente ostiche e claustrofobiche di certa musica “contemporanea”.
Un pasticcio, dici?
Ecco, la prima sorpresa è qui.
No, davvero no.
Nessun calderone ribollente e destrutturante, pretenzioso e arruffone.
Un gioco di equilibrio, che si svela crescendo con calma, traccia dopo traccia.
E che abbandona progressivamente le forme più riconoscibili, divenendo via via altro: brano dopo brano, e poi in ogni brano. Senza perdere coerenza di struttura. Ogni pezzo è un intarsio di livelli, di atmosfere, un raffinato gioco che prevede sempre un’eccellente interazione tra gli elementi.
Ah si, certo: cosa suonano questi cinque signori?
John Hollenbeck, che firma tutti i brani, è un percussionista con numerosi progetti e collaborazioni nel proprio carnet (una tra tante quella con l’adorabile Meredith Monk: certi tipi umani si fiutano) Qui suona batteria, percussioni, pianoforte e tastiere.
Ad assecondarlo in questa abbondante ora di musica, i fiati (clarinetto, sax tenore, corno baritono) un basso acustico e chitarre, fisarmonica, altre tastiere ed un vibrafono.
Maneggiati con perizia dagli altri componenti, polistrumentisti indubbiamente all’altezza del delicato lavoro.
E dotati di quella divertita attitudine che John Hollenbeck dichiara apertamente nel suo sito.
Quasi impalpabile a tratti, ma fitta di minuscoli suoni: così è, a volte, la musica di The Claudia Quintet.
In altri momenti si aggroviglia vorticosa, si fa sbilenca e frenetica, per poi deviare in altre direzioni.

Mente scrivo questa riga sono in “Limp Mint”, una sorta di ambient che era iniziata sul dialogo sinuoso tra basso e vibrafono e poi, incontrando le percussioni, aveva virato verso la sottile inquietudine dei fiati in una sospensione tra il silvestre e il notturno urbano, accesa nuovamente di intermittenti luminosità cristalline.

LEGGEREZZA ED ELEGANZA. IL SEGRETO DI UN’APPARENTE SEMPLICITÀ.
Quello che mi cattura ad ogni ascolto è lo sviluppo dei brani, che non punta su tranelli o sorprese, ma è un concatenarsi di continue, piccole e costanti sorprese.
Quando diluisce e rende rarefatta la trama sonora, per percorrerla con leggere variazioni timbriche e ritmiche. O quando procede per accumulo, nella collisione tra linee che sembrano viaggiare in opposte direzioni.
Anche dove ricorre ad una reiterazione di matrice quasi minimalista (ora sono finito dentro “Boy With a Bag and His Guardian”, splendida) c’è, però, un inconsueto senso “melodico” ad attraversarne il tessuto.
Il combo di Claudia pare esercitare una forma di elegante “espressionismo astratto” controllato, con un humor inafferrabile a rendere coesa la stratificazione dei frammenti in un approccio che potrebbe risultare altrimenti quasi concettuale.
Ma chiudiamo subito coi rimandi all’arte “contemporanea”.
Perché certi riferimenti rischiano di costituire una cornice sovradimensionata e “pesante” per il quadro dipinto dal quintetto newyorkese, che resta assolutamente godibile.
Di quelli che davvero riascolti scoprendo i delicati ma efficaci bilanciamenti, l’espressività che emana dalla raffinata attenzione ai suoni, al loro colore, all’impasto tra quelli elettrici e quelli acustici, anche nei non rari momenti di energico e irrequieto incrocio quasi free.
E riscoprendo la particolare e brillante scrittura, che rende sottilmente concreti ma quasi sfuggenti tutti i 13 brani, impedendo che il loro inconsueto, divertito e misterioso fascino si esaurisca ai primi ascolti.

Insomma, questo disco mi piace molto.
Una declinazione possibile di quella indefinibile materia che ancora chiamiamo jazz, ma che si spande come un liquido assumendo le forme più impensate, a New York ha assunto le sembianze di 5 buffi signori che portano il nome di una donna sul loro stendardo.
Faccio il tifo per loro.
Che altrove strepitino altre trombe, ruggiscano convulsi altri eroi: qui non riusciranno a coprire il suono di Claudia.

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