Tutta la storia inizia con questo tale Frederick Taylor che, invece di fare l’ingegnere, si mette in testa di teorizzare l’organizzazione scientifica del lavoro.

E già a questo punto è intuibile che ne deriveranno disastri.

Perché quando qualcuno si mette a teorizzare sul lavoro, finisce sempre che teorizza sul lavoro degli altri, mai sul proprio.

Che è un po’ la storia di tutta quella gente che dà buoni consigli se non può più dare cattivi esempi; e pure di tutta quella gente che insegna quel che non sa fare, altrimenti quel che c’è da fare se lo farebbe da sola e non starebbe a pretendere di insegnarlo agli altri perché lo facciano al posto loro.

E su questo non ci piove, e comunque, anche quando piove, l’ingegner Taylor e consimili – tipo, il ragioniere Casoria - hanno sempre un ombrello a portata di mano e qualcuno che glielo regge.

Va così che il Taylor ha l’incrollabile certezza che tu lavoratore, quando lavori, è meglio se fai sempre le stesse cose, giorno dopo giorno dopo giorno, e tanto di guadagnato se arrivi al punto che neppure sei più consapevole di quello che stai facendo.

Per cui, nel gennaio del ’25, quando il mascellone tira fuori la storia del popolo bue, mica s’è inventato niente, ha solo ampliato il concetto dall’operaio al popolo tutto, o quasi.

Poi, figurati se, ad un certo punto, non salta fuori da chissà dove un illuminato che gli viene il ghiribizzo di sperimentare la teorizzazione del Taylor, sempre sulla pelle di qualcun altro, mica sulla propria.

Questo tizio esiste per davvero, ha un nome e pure un cognome - il nome è Henry, il cognome Ford – ha un sacco di soldi lasciati da mamma e papà, cosa che non guasta mai, fa l’industriale ed ha fabbrichette sparse in tutto il globo, il che vuol dire che ha sotto di sé un bel po’ di pellacce sulle quali praticare la teoria, e così s’inventa la catena di montaggio, che fa paura solo a dirla.

E magari sono pure dei geni, sia il Taylor teorizzatore sia il Ford praticone.

Ma magari è pure più geniale un minuto e talentuoso tuttofare che in pochi minuti rischia di mandare a gambe all’aria la teoria e la pratica.

Solo che il tipo, che si chiama Charles Chaplin, sta dietro ma pure davanti ad una macchina da presa, e quell’ammennicolo ad una catena di montaggio gli fa un baffo.

Per cui le cose vanno come devono andare; e va a finire che nel 1962, quando Henry è defunto da ormai quindic’anni, dalla fabbrica che sta in Inghilterra viene fuori un macchinone – perché questo si assembla nella fabbrica del fu Henry, macchinone – per far la guerra commerciale a quelli della BMC, che pochi giorni prima se ne sono usciti con quella scatoletta della Mini.

Quel macchinone si chiama Consul Cortina, poi solo Cortina, e continua a venir fuori dalla fabbrichetta per altri vent’anni, in quattro serie.

MK.1, MK. 2, MK. 3 e MK. 4.

L’ultima serie, l’MK.4, varca i cancelli della fabbrichetta nel 1976; proprio quando, per le strade d’Inghilterra, fa la sua apparizione una strana fauna che sbraita contro la regina, che non c’è futuro e che comunque a marcire alla catena di montaggio non ci finirà mai.

E ti immagini che simili invasati, ad una Cortina, minimo la ribaltano.

Però le cose non sempre vanno come devono andare.

Finisce che la Cortina diventa la “loro” macchina.

Tipo i Clash.

Fanno una canzone che si chiama «Janie Jones» e la mettono pure all’inizio del primo disco, così è la prima cosa che sai di loro.

Parla essenzialmente di uno che gli sta sulle palle il lavoro che fa e appena può se ne scappa via a bordo della sua Ford Cortina.

Tipo la banda di Tom Robinson.

Fanno una canzone che si chiama «Grey Cortina» e la mettono nel primo disco, non all’inizio ma quasi, va bene uguale, il senso non cambia.

Parla essenzialmente di uno che vorrebbe averci una Cortina grigia.

Se due indizi, fanno un sospetto, il terzo ti dà la certezza.

Tipo The Cortinas.

Che sono cinque ragazzotti di Bristol e quel macchinone non lo ficcano dentro una canzone, ma se lo scelgono come ragione sociale, tanto per rimanere in tema di fabbrichette.

E vengono pure prima di quel tizio che sta in fissa con Janie Jones e pure di quell’altro che vorrebbe averci la Cortina grigia.

1976, infatti, l’anno che la MK. 4 varca i cancelli della fabbrichetta del fu industriale Henry Ford.

A Bristol li conoscono tutti, i Cortinas, anche perché non è che nei paraggi ci siano in giro tante altre bande.

E però, anche se sulla cartina geografica ad uso e consumo del punk Bristol conta zero, un giorno ci capitano a suonare gli Stranglers, che invece sono un nome caldo; i cinque Cortinas li tampinano da vicino, ci entrano in confidenza e alla fine gli mollano una cassetta con un po’ di brani incisi sopra; gli lasciano pure un contatto, ma è come quando sei in cerca di lavoro e mandi il curriculum, lo sai già che non ti risponderà mai nessuno o al massimo chi ti risponde è perché ci tiene ad informarti che gli dispiace ma blablabla.

Allora figurati la scena quando il contatto viene contattato da un galoppino, perché «Ai ragazzi piace quello che suonate, che ne dite di aprire per loro al Roxy tra un paio di giorni?».

Ed il galoppino ancora non ha riattaccato la cornetta, che i cinque hanno già macinato i chilometri che dividono Bristol da Londra, e sono davanti al Roxy con una sola cosa in testa, «Ca##o apriamo per gli Stranglers …», ripetuta come un mantra, «… e poi ci troveremo come le star a bere del whisky al Roxy …».

Però le cose non sempre vanno come devono andare, e talvolta viene da aggiungerci un meno male.

I Cortinas non sfondano – e meno male – perché altrimenti mi ci sarei affezionato di meno, sicuro; e nemmeno avrei tirato sempre fuori ‘sta storia che quando vado a un concerto, ci vado colla Cortina; perché io la Cortina non ce l’ho, però vorrei avercela, grigia o di qualsiasi altro colore.

I Cortinas non sfondano, perché bucano clamorosamente la grande occasione; ed il loro primo ed unico album, «True Romances», è una delusione; più per colpa di chi ci mette le mani, così si vocifera, che per la qualità della proposta.

1978, e la vicenda comune dei cinque ragazzotti di Bristol è già finita.

Allora i Cortinas rimangono per sempre quel che è stato prima di «True Romances».

Due singoli dinamitardi; soprattutto il primo, «Fascist Dictator / Television Families», giugno 1977; ma pure il secondo, «Defiant Pose / Independence», dicembre 1977.

Punk rock grezzo e ignorante, senza nessun fronzolo, semplice e diretto come si suona in quei giorni; ché siamo qui per affossarli, gli hippies e gli altri sballati che swingano per le strade di Londra e non solo.

Nonostante l’aria che tira, i Cortinas non sfondano, e meno male.

A meno che non significhi “sfondare” passare per qualche attimo sotto i riflettori che illuminano a giorno la ribalta.

Perché a qualcuno di cui si sono perse le tracce le liriche si «Fascist Dictator» non vanno a genio; e allora dagli ai bruti che se ne fottono dell’amore della loro dolce compagna e invece se lo vanno a cercare tra le braccia di una puttana; e poi se ne tornano a casa scazzati, in cerca di un pretesto per spaccarle la faccia, alla dolce compagna; perché quei cinque ragazzotti sono davvero degli infami bastardi, lo dicono loro che sono dei fascisti, e pure dittatori.

Traviano i benpensanti e tutto il solito armamentario.

Come quei quattro teppisti che prendono a mazzate da baseball gli infanti, e se ne vantano pure.

La polemica tiene banco il tempo dell’edizione della sera del foglio di quartiere del quartiere più periferico di Bristol; i Cortinas il casino sollevato dal siparietto tra i Pistols e Bill Grundy se lo sognano.

Però, qualche altra volta le cose vanno come devono andare.

Così, nel 2010, mi ritrovo per le mani questo vinile, «MK. 1», come la prima serie della Cortina che sta in copertina ed i cinque ragazzotti di Bristol affianco.

Dentro ci stanno tutti e quattro i brani compresi nei due bellissimi singoli e pure altri dieci pezzi registrati prima del diluvio e sullo stesso tenore.

Bel disco, per chi gli piace il genere.

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