Capita di ritrovarti in una delle “tue città” e di rimettere piede in uno di quei negozi di dischi che per anni hai saccheggiato. Succede che ti serve una copia in cd di "Marquee Moon" perché il vinile che hai è un aggregatore di affetti e non vuoi che vada in malora. Passa anche che appena entri trovi proprio lui, quello che poi tante birre di sera fuori, e che ci metti cinque ore per uscire. Cinque ore durate poco.

Evito di infastidirvi con il trip musicale che ha investito il negozio per tutto il pomeriggio, effettivamente non c’entra nulla. Ma sarebbe stato interessante sottoporvi tutta la play(full-lenght)list che s’è chiusa proprio con i brani del disco che vi presento di seguito e che non mi sono lasciato sfuggire perché ad alto volume, in casa, fa davvero tanto, tanto cupoide.

Sui The Dead Weather sapete sicuramente più di me. Mosshart, Fertita, Lawrance e White ritornano dopo solo un anno - in maniera più convinta - in una mascherata da bravi interpreti di cosa possa voler dire fare rock nel 2010. Il disco mi ha impressionato favorevolmente, l’ho trovato contemporaneo, avanguardista non tanto nel genere proposto ma nella capacità di saper prendere le tendenze giuste e metterle assieme con un po’ di anima in più rispetto a "Horehound".

"Sea Of Cowards" mi ha convinto perché in pochi minuti (più di trenta) arriva all’obiettivo di offrirti un buon magma fatto di strafottenza e dandismo cristallizzati, risultando di base un disco paraculo: sicuramente, checché se ne dica, popolare (secondo me ha buoni margini di vendita) ma non è mai giocato in maniera stupida o squallidamente costruita a tavolino. Mi concedo un paragone traballante che però può rendere: lo scintillio pop rock proposto in maniera frivola dai Garbage nella seconda metà degli anni ’90, si riflette invertito nel decadentismo ombroso formulato dai The Dead Weather nella chiusura del primo decennio doppio zero. Spero di aver reso l’idea. Un’idea slegata dai generi ma ancorata a quell’attitudine esibizionista di un preciso periodo temporale.

L’album suona come un’angioplastica riuscita ma sbavata. I suoni si aggirano in una foschia densa che sa di trasalimenti trip e “ignoranza” stoner. Ma sono solo retrogusti per palati agglutinati di tabacco. L’atmosfera complessiva che unisce tutte le tracce è decisamente noir, puzza delle secrezioni di rabbia del nuovo millennio ma non scende in piazza. È come se volesse restare una forma di denuncia (bello il titolo) didascalica, spocchiosamente autoreferenziale e altisonante. Sembra chiusa all’approccio come il taxirdriver e guidata dalla megafonica voce della Mosshart, schizoide e magnifica interprete di un isterismo controllato e di saliscendi da mal di mare (mal d’anima). A tratti spietato nei confronti delle corde vocali passate di cera. In due brani interviene anche White: ho letto che molti sono stati ben felici di ciò, per me sarebbe stato meglio lasciare i microfoni alla Mosshart.

Ho letto anche che qualcuno, nella musica, ha sentito rimandi ai Sabbath e al dirigibile. Allora, è fuori da ogni dubbio che quegli anni siano presenti in alcuni brani in maniera massiccia ma più che delle due storiche band io parlerei semplicemente di un hard blues su rotte spaziali. Mi meraviglio di come reperti di spartiti archeologici suonino così attuali grazie a un’ottima prova di gruppo non arroccata ma comunque abbastanza stabilmente posta in quell’anfratto guascoindie che ha fatto la fortuna di molti (striscia il bancomat, White). Tra solai anneriti dall’umidità ed intonaci old style in caduta libera, si annoverano presenze synth su mitragliate di chitarra che, rispetto al lavoro precedente, fa la parte del carnefice. "The Difference Between Us", non a caso si rivela il pezzo meglio riuscito di questa release a parere di chi scrive.

Nel mutare difficile e ricercato di ogni brano non è semplice definire l’aura vintage post moderna che avvolge il tutto. Credo si tratti di un disco che guarda davvero avanti giocando sporco e retrò. E sono certo pure del fatto che non si tratti di un esercizio di stile per una superband i cui membri provengono da nomi di grosso calibro. Questa prova infittisce le relazioni artistiche dei quattro e li avvicina ad essere un gruppo unito e credibile. Senza evidenze stilistiche ascrivibili alle formazioni d’origine. Manca il pezzo forte, manca ancora un passo avanti in personalità. Ne hanno fatto solo mezzo, ma è quanto basta per sperare bene. E per ritornare a vedere un amico, in una delle “mie città”.

Elenco tracce e video

01   Blue Blood Blues (03:22)

02   Hustle and Cuss (03:45)

03   The Difference Between Us (03:37)

04   I'm Mad (03:16)

05   Die by the Drop (03:29)

06   I Can't Hear You (03:35)

07   Gasoline (02:44)

08   No Horse (02:49)

09   Looking at the Invisible Man (02:42)

10   Jawbreaker (02:58)

11   Old Mary (02:52)

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