C’é una scena (bellissima) di un film (bellissimo) in cui un mai piú tanto bravo Vincent Cassel diviene l’arma con cui Kassovitz rappresenta la metafora dell’alienazione umana di fronte ad una societá sempre piú vorace e distruttiva. Una societá che ha un bisogno insaziabile di divorare i desideri, per poterne creare di nuovi. Gente impazzita, mercato impazzito, certezze impazzite. Necessiti di nuovi amici e nuovi nemici e – quando non sai piu’ dove trovarne – la tua stessa faccia diventa nemico.
Vinz allora si guarda allo specchio – vede se stesso, ma non si scorge. Vinz vede solo i suoi sogni andati in fumo, una perdita di contatto continua, banlieu eterno di periferia. Si guarda, e scorge il suo nemico. “Stai parlando con me, brutto stronzo? Dici a me? E’ con me che ce l’hai, bastardo?”. Si, é con proprio con te, che ce l’ha, Vinz.
Chissá perché pensavo a Vinz, in coda agli sportelli dell’Arena di Wembley. Pensavo ai soldi che non bastano mai, e finiscono sempre; pensavo ai sogni che non bastano mai, e crollano sempre. Pensavo agli anni migliori, che sono sempre quelli che hai giá vissuto. Pensavo a Stephanie, che non conosce i Doors, ma in compenso mi canta Gainsbourg, e lei sa quanto mi piace, starla ad ascoltare. Pensavo agli eroi, tutti giovani e belli, chissá perché gli eroi muoiono sempre giovani e belli.
Guardavo Ray Manzarek, e lui era il mio specchio.
“Stai suonando per me, vecchio? Dici a me? E con me che ce l’hai? E proprio me che stai prendendo per il culo, vecchio?”. Lo guardavo, seduto al suo patetico organo, sempre lo stesso suono, sempre la stessa postura, lo stesso sorriso sardonico, lo stesso vecchio, ritrito effetto “Leslie”.
Guardavo Ian Astbury, e lui era un’altro specchio, metafora dell’incapacitá umana di accettare la fine inevitabile di tutte le cose, di invecchiare con orgoglio e rispetto.
"Tutto cade e si distrugge" mi disse una volta Fedor, e io non ci credevo. Ma tu che te ne sai, Ian? Tu, e i tuoi mediocri Cult. Stessa voce spaventosamente simile, stessi occhiali scuri, stesso vestiario, movenze, posture. Una marionetta che sfida il ridicolo, stringendo forte il sipario all’estremitá, nella paura che possa chiudersi.
“La morte non é la fine” cantava il sommo poeta elettrico, e chissá che non si nascondesse un lato sarcastico nelle sue parole. Non ho mai amato viscerarmente i The Doors. Ho amato Roadhouse blues (la faranno in apertura), ho amato Alabama song (piazzata al centro), ho amato “L.A. Woman” e “Soul kitchen” (che chiuderanno). Piú di tutti ho amato il personaggio, ho chiesto tante volte a Dio di essere come lui, e un pó lo sono stato. Ho amato la sua ricerca esasperata della perfezione, della poesia, del mito dell’uomo bello e dannato. Ho amato il suo mito della continua ricerca di se stessi.
L’Arena era mezza vuota, ed ho amato anche questo. Gente con cui non condivido nulla, il rock & roll visto non come gioia ma come vanto. "La testa di Astbury come mio trofeo per voi, signori!" I sogni di “Lome Me Two Times” (quinta o sesta in scaletta) venduti come cimelio.
Robbie Krieger suona come su di un qualsiasi disco dell’epoca d’oro. A completare l’organico due session-men buttati nel grande circo chiamato “The Doors of the 21th century”. Buffoni pure loro. Tutto é esattamente simile come su disco. Guardo le mie tasche e loro diventano il mio specchio, ma dovevo esserci, lo dovevo per me stesso, e per i miei sogni, che tuttavia continuo ancora, tenacemente, a preservare. Lo dovevo per le immagini che scorrono alle loro spalle, un megaschermo gigante mi ricorda degli anni migliori della storia della musica, dolce amarcord che messo lí assume forme tragi-comiche.
Se non c’eravate, non prendetevela a male. Ascoltate la vostra copia di “Morrison Hotel”, tanto Astbury non cambia una virgola, e come potrebbe. Buffoni loro, perché “La morte non é la fine” per il Dio Denaro, e buffoni gli altri, perché il Dio Denaro compra tutto, anche la resussezione. E buffone io, che ancora ci credo, al sommo poeta elettrico.
“E’ forse possible che l’uomo, conoscendo i suoi sogni, e vedendoseli deturpare, nutra il minimo rispetto di stesso e degli altri?” mi disse una volta Fedor. E per un’ultima volta lasciate che mi guardi allo specchio.
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