"Stranger Things" è una serie televisiva in 8 puntate, trasmessa dalla piattaforma digitale Netflix nell'estate del 2016.
E' ambientata nel 1983 e racconta la storia di 3 ragazzini un po' sfigati, appassionati di scienza e giochi di ruolo, che cercano in tutti i modi di salvare Will, un loro amico letteralmente scomparso nel nulla.
Sulla strada che li porterà, forse, a riabbracciare il loro compagno, si imbatteranno in Undici, una ragazzina dotata di potere ESP appena scappata da un istituto governativo che da anni la sottopone ad esperimenti per scopi militari.
E ci saranno primi amori, una madre che non si arrende all'idea che il proprio figlio sia morto, anche a rischio di sembrare pazza, un poliziotto disilluso con un passato drammatico, un paio di bulli che riceveranno quello che si meritano, un dottore cattivo e senza scrupoli e un mostro che si muove nell'ombra e si nutre di sangue.
Qualcuno l'ha definita "Un film di otto ore scritto da Stephen King, girato da Steven Spielberg e musicato da John Carpenter".
E, francamente, non credo esista un modo migliore per descriverla.
E' un'opera spudoratamente derivativa, una celebrazione calligrafica di personaggi, storie, situazioni, e addirittura singole immagini, già viste e lette da chiunque abbia anche solo fatto occasionalmente visita alla fiction cinematografica o letteraria degli anni '80.
E' ormai qualche giorno che ci penso, ma francamente non credo che ci sia un solo elemento narrativo originale in tutta la serie.
Non è un semplice effetto di deja vu.
E' proprio che bastano pochi minuti, se non sei molto sveglio un paio di puntate, e sai già come andranno a finire le cose.
Questo dovrebbe farmi arrabbiare.
Forse dovrebbe farmi detestare questa serie.
Eppure me la sono guardata tutta d'un fiato, nel giro di una manciata di giorni.
Nonostante sapessi già che Tizio sarebbe morto, che Caio si sarebbe innamorato di Sempronia e che Mevio faceva tanto l'amicone ma sotto sotto veniva dalla categoria "BBC" di Spankwire.
Forse il segreto è che non importa tanto (o soltanto) quello che racconti.
Conta soprattutto come lo racconti.
La vera forza di opere come "It", "L'incendiaria", "I Goonies", "Explorers", "E.T l'extraterrestre", "Moana e Cicciolina ai Mondiali" è la capacità di rimanerti dentro.
Meglio, di farti venire una voglia quasi incontrollabile di rimanerci dentro.
Finivi di leggere, appoggiavi il libro sul comodino, non avevi ancora spento la luce, e già stavi sognando di costruire una diga nei Barren con Bill, Stan e Ben, di radere al suolo il laboratorio della "Bottega" con la sola forza della mente, di scoprire una mappa del tesoro in soffitta (anche se non avevi nemmeno la soffitta) o di essere scelto chissà da chi per chissà quale missione segreta.
Ma anche di avere degli amici disposti a rischiare la vita per te, di baciare la ragazza di cui eri perdutamente innamorato, di essere forte...
A pensarci bene, erano un mucchio di stronzate.
I pagliacci non stanno nei tombini e gli alieni non ti invitano sulla loro astronave a guardare la televisione.
Mia madre non mi faceva attraversare da solo nemmeno la provinciale di fronte a casa, come avrei potuto costruire una diga? Ma, poi, di quale fiume?
E Ylenia, la ragazza che mi piaceva da stare male in seconda media, alla fine s'è messa con uno di un paio di anni più grande che la veniva a prendere in motorino.
Ve la ricordate la frase con cui si chiude "Stand by me"?
"Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a 12 anni. Gesù, ma chi li ha?"
I miei amici a 12 erano ancora più mocciosi di me.
E probabilmente avrebbero calpestato volentieri il mio cadavere anche solo per evitarsi un brutto voto in matematica.
Lo so oggi, ma lo sapevo anche allora.
Eppure quelle storie me le porto tutte dentro, come se fossero mie.
Ho desiderato talmente tanto viverle, che è un po' come se le avessi vissute davvero.
E "Stranger Things" me lo ha ricordato.
E tanto basta.
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