Si dice che Manchester sia una delle città più brutte d’Europa. Sarà vero? Io per ora so solo che si tratta di un tipico centro industriale, sviluppato ai tempi della Prima Rivoluzione, da più di un secolo e mezzo avvolto nei densi fumi uscenti dalle ciminiere delle sue numerose fabbriche… Me la immagino come una città triste, monotona, senza molte attrattive, col cielo perennemente nuvoloso… Una città grigia. Almeno questo è il quadro che emerge dall’ ascolto di “Live At The Witch Trials” dei Fall, che in quel grigiore passavano la loro esistenza, a fine anni ‘70, quando il Rock aveva preso coscienza dei mali della civiltà moderna e li aveva tradotti in musica.

Così nacque la New Wave, di cui i Fall possono qualificarsi come esponenti di spicco. Anzi, credo proprio che la loro tecnica compositiva ed esecutiva possano valere da esempio per definire la New Wave. O almeno una delle tante vie che questo Rinascimento del Rock intraprese.

Nella fattispecie, i Fall stavano alla larga dalle manifestazioni tipicamente “British” di questa corrente (il depresso Dark-Punk dei Joy Division e il romantico Synth-Pop degli Ultravox), ma anche dagli eccessi sperimentali a cui i loro connazionali si stavano dedicando sul fronte elettronico (Wire), Dub (P.I.L.) e Funk (Pop Group). I Fall guardavano oltreoceano, soffermandosi in particolare sullo stato dell’Ohio, dove risiedevano gli immensi Pere Ubu: la band di David Thomas rimane dunque il principale e più immediato referente per la musica dei Fall. Come gli Ubu, i Fall facevano canzoni; come gli Ubu, i Fall deturpavano tali canzoni, a forza di sincopi, dissonanze, armonie eccentriche, contrappunti sbilenchi; come gli Ubu, i Fall trasfiguravano la noia della routine quotidiana in una “danza moderna”, tanto nevrotica quanto grottesca, in cui la diagnosi del malessere esistenziale forniva al contempo un antidoto per sopravvivervi. Rispetto ai Pere Ubu, tuttavia, i Fall bandivano ogni deformazione espressionista e ogni divagazione surrealista, attenendosi ad un realismo fatalista e disilluso, totalmente privo di vie di fuga, di possibilità di catarsi, di speranze di cambiamento. I brani dei Fall sono uguali dall’inizio alla fine: come cominciano, proseguono e così terminano. Potrebbero continuare all’infinito: sono l’immagine di uno stato delle cose impossibile da mutare. Non c’è traccia di riscatto, di rivalsa, di orgoglio; solo un pugno di note macinate apaticamente; le estemporanee impennate ritmiche e gli sporadici sfoghi vocali paiono privati del loro potere liberatorio, messi in atto più per convenzione che per convinzione, cinicamente assorbiti dall’ indistinto e inesorabile reiterarsi del ciclo sonoro. Eppure, non ci sono due giri di accordi suonati allo stesso modo: ad ogni ripetizione, c’è almeno uno strumento che sfasa, per poi rimettersi rapidamente in riga. Ma tutte queste sbavature non alterano minimamente la spina dorsale dei brani, che resta sempre uguale a se stessa. Queste “variazioni sul tema” fungono più che altro da diversivo, per mascherare la monotonia, o per scongiurarla, come quando si cerca di ingannare il tempo con giochini idioti, scarabocchi, elucubrazioni fini a se stesse.

L’iniziale “Frightened” chiarisce immediatamente l’estetica della band: un ritmo strascicato (Karl Burns alla batteria e Marc Riley al basso); una chitarra scorticata (Martin Bramah); un synth minimale (Yvonne Pawlett); un canto schifato (il lunatico Marc Smith)… Avanti così per 5 minuti. Pesante l’ influenza dei Velvet Underground. Il resto del disco non si discosta da questo modello di "ripetitività variegata”, ora accelerando il ritmo, ora sfalzandolo (il convulso Jazz-Punk di “Crap Rap/Like To Blow” e “No Xmas For John Quays” , due dei loro numeri più irresistibili), ora dilatandolo (l’abisso doorsiano di “Music Scene”). Negli episodi più contorti, si avverte l’ ingerenza dei costrutti irregolari di Captain Beefheart.
La forza dei Fall risiede comunque nella capacità di sviscerare ogni stato d’animo attinente alla loro condizione: lo spettro degli umori va dalla disperazione di “Rebellious Jukebox”, all’indolenza (saltuariamente stravolta da fatui scossoni) di “ Mother-Sister”, alla sospensione di “Industrial Estate”. Il timbro della chitarra passa abilmente dallo stridulo allo sgangherato, raggiungendo talora vertici di isterismo degni di uno Sterling Morrison; la voce di Marc Smith, dal canto suo, si destreggia in un ampia gamma di registri: nasale, distaccato, declamato, trasandato, nenioso, ma quasi mai tragico, perchè nei Fall non c’è nessuna tragedia, solo necessaria constatazione del tedio… C’è spazio anche per la rivisitazione dei generi classici, con l’azzannante Rockabilly di “Underground Medicin”, i baldanzosi Garage-Rock di “Future Pasts” e “Psycho Mafia” , lo sghembo sketch kinksiano di “Bingo Master” . Se la nauseabonda cantilena della conclusiva “Repetition” sintetizza, sin dal titolo, la filosofia della band, il momento clue dell’ opera è forse “Two Steps Back”, pallida ode al grigiore di tutti i giorni, da assorbire nelle giornate uggiose, invernali, vuote, magari con qualche linea di febbre, lasciandosi ipnotizzare dalla debilitante melodia sintetizzata e dall’oziosa voce di uno Smith sempre più annoiato.

Coi Fall, tanto semplici nella composizione quanto sofisticati nell’esecuzione, popolari e intellettuali al tempo stesso, la New Wave si trasforma in un sottofondo per vite che si trascinano avanti stancamente, senza sconvolgimenti, senza svolte, senza cambi di rotta che non siano mere illusioni.

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