"Papà, bisogna mettere la macchina nella fornace". Questa citazione da "Chitty Chitty Bang Bang”, un film per bambini del 1968, congiunta al biblico e solenne riferimento al “battesimo con il fuoco”, reca in dote il nome alla band chicagoense di stanza a New York . Ed ecco le “Fornaci Ardenti”. “Rehearsing My Choir” è il loro terzo LP; un disco Rough Trade, datato 2005, gemello del successivo “Bitter Tea”, ma slegato da quello e dai predecessori, perché più sperimentale e avulso dalla forma canzone.

Questa volta Eleanor e Matthew Friedberger, hanno assoldato la nonna ultra-ottantenne, Olga Sarantos, ex direttrice del coro della chiesa cristiano ortodossa di Oak Park, il loro sobborgo natio; a lei è affidata la lunga narrazione melodrammatica di personali episodi di vita vissuta e di aneddoti di circostanza dell’Illinois anni quaranta, in un flusso di coscienza continuo, quasi ininterrotto, ineluttabile. Con l’oratrice dialoga, in uno scambio intergenerazionale, spesso satirico, Eleanor: la sua voce, si situa a metà strada tra Chrissie Hynde e Grace Slick. Fascinosa ed affabile quanto la Pretender, vanta la bellezza pervicace della seconda, scevra però di quella stessa potenza espressiva.

Sulla storytelling, parlata e recitata, si vanno ad aggregare le bizzarre invenzioni e variazioni di Matthew, che alternano momenti concitati, polifonici, ficcanti, a inflessioni lente, lucide e minimali. Le tastiere sovrabbondano, ora solenni, ora giocose, ora classicheggianti, ora appesantite a mò di Residents. Poi i clavicembali, le chitarre elettriche e talora acustiche, i loops elettronici, le cacofonie analogiche e digitali decantano in collages sbilenchi, in brandelli di canzoni ed abbozzi cangianti, in stilemi e “mosche nella bottiglia”. I gesti prevalgono sui suoni, le atmosfere sulle armonie, le armonie sulle melodie. L’imperativo è disattendere le aspettative, evitare i ritornelli folkye accattivanti già effusi amabilmente in “Gallowsbird’s bark” e nell’EP omonimo.

Nell’immaginario dei fratelli Friedberger, Marcel Proust incontra Walter Benjamin: perso il significato univoco della verità-aletheia, possiamo soltanto accedere a frammenti di senso e a costellazioni di significati esplosi, facendoli collimare tra loro, alla ricerca di chiastiche corrispondenze, anche tra i ricordi e le discontinue speranze.

Tra ambizioni Prog e amatorialità alla Fugs, l’Indie Pop viene elevato ad Art Rock dai FIery Fournaces. L’Avant-Pop si tinge di vivida varietà e concretezza sfuggente, di synth pop e di garage blues, in trame multiformi, eterogenee, spinose a volte, tra sincretismo ed idiosincrasie. Non ci sono canzoni convenzionali, o riconducibili ad una struttura canonica. Non c’è neanche il blues stonesiano stravolto che aleggiava nel predecessore immediato, l’eccellente “Bluberry Boat”. Mai come questa volta le “Fornaci Ardenti” si rivelano utili alla produzione di laterizi e calce: così Beefheart, Zappa, Residents via “Third Reich Rock’n’Roll”, Pere-Ubu via “Modern Dance”, i Faust debuttanti, i Royal Trux, i Devo, i Gong, i Kinks, e ancora il dilettantismo delle Shaggs e la proffessionalità Lee Hazlewood e Nancy, nelle attitudini, se non nelle forme frammentarie, divengono un patch-work totale, una rock opera tutta slegata, dalle partiture complesse, senza apparente coerenza, senza liricità. Il suono dei ricordi emerge rapsodico, lo sperimentalismo Indie Prog si fa in qualche modo “veloce e gibboso”.

The Garfield El, il primo brano, esordisce proprio con uno sproloquio di nonna Olga alla “Fast and bulbous” del Capitano Cuoredibue: “Faster Hammers” ripete, in una evocazione continuativa, attraversando un sabba di tastiere impazzite di gioia. Wayward Granddoughter, con scacciapensieri pigolante e clavicembalo carezzevole, sui quali si innestano percussioni disco beat, inizia come canzone poi naufraga, per sferragliare infine sulle corde di una elettrica garage di stampo stoogesiano. Questi due brani sono la perfetta epitome di tutto il concept album. Tra gli altri pezzi, tutti di almeno sette minuti, Slavin Away accenna una plausibile melodia Folk, salvo poi obnubilarla in fretta.

Album poco fruibile, di difficile ascolto. Collage sonori, irrazionali, poliedrici, iperboli, paesaggi visibili solo a scorci. Dadaismo compositivo, riluttante alla forma, in un caos apparentemente organizzato. L’idea più improbabile di opera Rock.

Che la nonna, forse, l'abbia disconosciuta?

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