In memoria di Grant McLennan
(1958-2006)He was raised up in a house of women
In a city of heat that gave its children
Faith in the fable of coral and fish
Taught them the world is something to miss" ("Unkind and Unwise", da "Spring Hill Fair")
Era la fine del 1984, quasi ventidue anni fa, quando ascoltavo per la prima volta "Unkind and Unwise". Un’estate solitaria di distanze assolate e venti caldi si apriva in mezzo ad uno dei più piovosi inverni che io mi ricordi. Avevo già sentito parlare dei Go-Betweens dai miei amici esperti di musica “indie”, li avevo orecchiati distrattamente, ma solo allora ascoltavo per intero un loro long-playing (si chiamavano ancora così), "Spring Hill Fair", e solo allora apprendevo che erano australiani, e questo in qualche modo mi faceva tornare i conti di quegli “interminati spazi”. Scoprivo che esisteva un altro mondo musicale agli Antipodi, in cui la plumbea estetica gotica dei primi anni Ottanta era come non fosse mai esistita, e in cui una poesia malinconica e discreta regnava sovrana.
Da lì sarei passato a "Before Hollywood", il disco che li aveva fatti conoscere oltre il loro oceano. Nelle immagini di copertina Grant McLennan era il ragazzo precocemente cresciuto, in controluce, dallo sguardo assorto. Avrei ascoltato "Cattle and Cane", e mi sarebbe diventato immediatamente familiare quel miraggio della memoria, l’immagine di quello “schoolboy coming home/ through fields of cane/ to a house of tin and timber/ And in the sky/ a rain of falling cinders”. Anch’io avevo i miei campi allora, davanti alla finestra, e anch’io avevo da poco scoperto come lui “a bigger brighter world/ A world of books/ and silent times in thought”, da cui ogni volta ritornavo a casa.
E poi avrei conosciuto "Dusty In Here", elegia sottovoce del rimpianto e dell’attesa disillusa, delle parole non dette che si aprivano davanti ad ogni verso:
"Like a ghost
A ghost of something old
It’s cold and dusty in here
It’s in your hand
It sits just like a glove
The finger traces the lines of love"
Insensibilmente Grant, il ragazzo malinconico un po’ più vecchio della sua età, divenne la mia “rock star”: proprio perché nulla era più estraneo al suo carattere che qualsiasi maledettismo o estetismo decadente. Solo un sorriso timido, solo quegli occhi che guardavano un po’ miopi a distanze indefinite. Così, tra un trasloco e l’altro, mentre tentavo di raccogliere i ritagli della mia memoria, sarebbero spuntati fuori ogni volta quelle note di copertina, quei fogli di vinile carichi di messaggi personali per me e per tutti quelli che conoscevo, quei bagagli che non potevo lasciare a terra.
E i versi di Grant li avrei tenuti come un talismano, quando sembravano seguire le stesse vie dolorose del mio coming of age. Nelle stanze della mia vita da “grande” risuonava il senso di casa e di estraneità delle sue canzoni d’amore così adulte, così complesse e poco consolanti. Come "Quiet Heart", sospesa tra l’assoluta intimità e la sensazione della perdita irreparabile ("The heater’s on/ The windows are thin/ I’m trying hard to keep this warmth in/ I turn to her/ She’s sound asleep/ Some place I don’t know/ Doesn’t matter how far you’ve come/ You’ve always got further to go"). Come "Was There Anything I Could Do?", che evoca una donna da cui ci si sente abissalmente lontani, e che però in qualche modo non si può non continuare ad amare (“I can’t say that I blame her / People don’t know what they want / If you spend your whole life looking behind you / You can’t see what’s up front”).
E conta o no qualcosa aver scritto il più bel titolo di canzone della storia, "Bye Bye Pride"? Aver detto come l’amore calpesta l’orgoglio sotto i piedi, averlo descritto mentre se ne sta andando, si mette le scarpe e si incammina verso il mare aperto?
Perché il "coming of age", il "watershed", la linea d’ombra della maturità, era il motivo di fondo, l’ossessione del ragazzo malinconico:
"You’ve got to take the moon from the trees("Easy Come, Easy Go", da "Watershed")
You’ve got to hide it in your room
You’ve got to hold it ‘til it burns
You’ve got to make it easy come, easy go"
Ho pensato a David McComb dei Triffids, appena l’ho saputo. Anche lui morto così presto e in modo così poco glamorous. Anche lui così disperatamente galantuomo, letterato e romantico. Ormai non posso più sentire parlare dell’Australia senza rabbia, terra che perde i suoi poeti, così, distrattamente.
La verità è che io non riesco a perdonare a Grant McLennan di essersene andato proprio adesso, adesso che ero certo di aver ritrovato i Go-Betweens a camminare sulla mia stessa strada, dopo tanti anni in cui avevo creduto appartenessero al (mio) passato. Lui e Robert Forster, persi nel proprio mito da studenti e critici solitari, persi in carriere soliste rispettate e grigie, come si conviene a quel genere di icone per "happy few". E invece all’improvviso erano tornati a infilare pericolosamente le dita fin troppo dentro i fatti miei, e io a gioire della loro importuna presenza ora che le mie stanze erano cambiate di nuovo, e i vecchi dischi che mi avevano seguito cercavano ancora compagnia.
In "Heart and Home" Grant voleva salvare un amore, diceva “I don’t want to be a guest”, e la sua paura lucente mi dava, chissà come, coraggio. E chissà perché ho continuato a piangere ogni volta ascoltando il refrain di "Mrs. Morgan", “She never wanted to see the rain”. E negli ultimi tempi scrutavo nella scura malinconia di Grant, assediata ancora da altri bilanci. "Boundary rider" ora mi angoscia e consola come un testamento, e si sa che è sempre così con il senno di poi: “So you reach for things / You’re never satisfied / You’re running down the years”.
No, non riesco a perdonarlo, e non so se ci riuscirò mai, per essersene andato proprio adesso, e proprio in quel modo. E’ vero, anche nella morte non è stato per nulla una rock star. Era felice, dicono, era in un periodo di grande creatività. Si è addormentato, dicono, in attesa di un sabato sera di festa. Se ne è andato in punta di piedi, con lo stesso sorriso timido e ospitale di sempre, senza disturbare. Ma è sempre troppo da rock star morire senza chiudere i tuoi libri e senza imitare te stesso, senza godersi la memoria dei vecchi bei tempi nelle parole degli altri. E’ troppo da rock star addormentarsi, trovarsi in mezzo ad una casa antica tra i canneti, scegliere di rimanere per sempre prigioniero nel tuo sogno.
Non riesco a rassegnarmi al fatto che le canzoni rimaste siano tutto ciò che è rimasto, che non ce ne saranno di nuove a seguirci tra un bagaglio e l’altro. Che dovremo scrivercele da soli, sperando che qualche verso sia rimasto impigliato da questa parte.
Eppure lo so che hanno ragione loro, “The first time you left home on your own, I knew / A little bit of you is gone when you do / But Caroline and I, well we grew, that’s true” ("Caroline And I", da "Bright Yellow, Bright Orange"). Sì, lui se ne andato. Sì, siamo cresciuti.
"I didn’t know anyone
Could be so lonesome
Didn’t know a heart could be tied up and held for ransom
‘Til you take your shoes and go outside
Stride over stride
Walk to that tide
Because the door is open wide"
("Bye Bye Pride", da "Talulah")
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