Non mi piace la parola “datato”. Aggettivo spesso abusato, che ridimensiona il valore di testimonianze d'epoca, specialmente quando queste non hanno avuto il riscontro che meritavano. Parecchie recensioni di film e musica di un determinato periodo vengono bollati a posteriori come “datati”. Perché? E' logico che se ascolto, ad esempio, un disco di fine Sessanta non mi aspetto di sentirci drum machine o assoli di chitarra in stile Van Halen. E' anche logico che, vista l'abbondanza di proposte musicali di quel periodo, alcuni abbiano avuto un enorme successo, mentre altri non hanno avuto il riscontro sperato e spesso e volentieri non è la qualità della proposta ad averne determinato la sorte. Solo che nel secondo caso si tende a liquidare frettolosamente l'opera in questione con l'aggettivo di cui sopra.

Epperò “datato” è una parola purtroppo inevitabile quando si parla di dischi come questo “Genesis” di The Gods, con buona pace del chitarrista Joe Konas, che in una recente intervista ha affermato molto modestamente che lui e la sua combriccola erano “avanti con i tempi”. Già dal nome (gli dei, ma per favore!) e con una pacchiana copertina che non è di certo una delle creazioni migliori dello studio Hipgnosis, si presentano alquanto pretenziosi al grande pubblico nel 1968. Eppure sembra che a credere in loro siano in parecchi, visto che incidono ad Abbey Road e debuttano per la EMI. A posteriori, l'interesse che suscita la band è dovuto più che altro alle gesta future del tastierista (qui anche voce principale) Ken Hensley e il batterista Lee Kerslake, che diverranno famosi negli Uriah Heep, e dello sfortunato bassista John Glascock, che sarà nei Jethro Tull nella seconda metà dei Settanta prima di scomparire prematuramente nel 1979 per un difetto cardiaco congenito. Prima del debutto, transitano addirittura nel gruppo Mick Taylor e Greg Lake...

Ma la musica? Nulla di interessante? Ad essere sinceri, non è la parte strumentale a destare forti dubbi: pur non essendo la più brillante e distintiva, si tratta comunque di un'onesta e tutto sommato passabile declinazione pop di intuizioni di Vanilla Fudge, Jimi Hendrix e Cream. Dunque nulla che non sia in linea con l'epoca, tra strati di organo e folate di mellotron, chitarre hendrixiane (Misleading Colours ha l'ardire di citare nei dieci secondi iniziali sia Foxy Lady che Purple Haze), qualcosa dei Cream più beat degli esordi (You're My Life ricorda parecchio I Feel Free), qualche tocco di british blues e errebì, sezione ritmica turbinosa il giusto, effetti sonori circensi-robotici vagamente inquietanti tra una canzone e l'altra a voler preservare un certo appeal lisergico in un momento di transizione tra psichedelia e generi a venire come hard e progressive; il tutto comunque eseguito senza lo spessore dei gruppi sopracitati ed edulcorato da buone dosi di orecchiabilità. Ciò in cui i (The) Gods scadono parecchio e il motivo per cui “Genesis” è invecchiato piuttosto male sono le parti cantate: impasti vocali pomposi ed enfatici più che realmente ispirati ed efficaci, non avari di cori e controcanti in falsetto alla lunga irritanti. Roba, a dirla tutta, che in Inghilterra è già fuori tempo massimo e che dimostra una certa affinità piuttosto con un'altra realtà del periodo, per quanto casualmente, ossia il nostro tardivo beat italico. Una canzone come la melodrammatica Candles Getting Shorter, che per fortuna non ha avuto fama mondiale e per una volta tante grazie, non è affatto difficile da immaginare coverizzata da Dik Dik, Equipe 84 e compagnia bella e probabilmente persino loro avrebbero rifiutato di fare una loro versione dell'orribile Farthing Man (l'acca se la potevano risparmiare, visto l'effetto che fa!), in cui a concorrere allo scempio, assieme alle imbarazzantissime voci, è uno spartito veramente insulso (testo e musica del sedicente avanguardista Konas). Con tutto rispetto per il cosiddetto “bitt”, che si ricorda sempre con un certo affetto, di una band inglese che a più riprese sembra una sua versione in lingua di Shakespeare e giusto un pochino più hard non so bene cosa farmene, in tutta onestà mi aspetto qualcosa di più.

Aspettate. Qualcosa di più in realtà c'è ed è la canzone migliore in repertorio, l'unica abbastanza memorabile: I Never Know, mellotronica, drammatica, composita (il pezzo più lungo del repertorio, con i suoi sei minuti scarsi), con un'intrigante atmosfera e un buon uso delle dinamiche, cori e falsetti sempre presenti ma con un tocco di misura e gusto in più; niente male, carina, ad ascoltarla viene quasi voglia di rivalutarli... Poi, però, basta sentire Looking Glass, che con il suo incedere ipnotico e il suo retrogusto gotico potrebbe anch'essa stare sopra la media, ma che invece viene rovinata da un piagnisteo in falsetto degno dei Cugini Di Campagna, e passa la voglia di ricredersi. Ed ecco dunque che “Genesis” dei (“The”, che palle questi nomi con l'articolo!) Gods rientra nella categoria di dischi su cui si può tranquillamente soprassedere.

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