Horace Silver, scoperto da Stan Getz, divenne leader di un suo gruppo dopo un bel periodo di esperienze varie, che hanno contribuito a fare di lui uno dei primi sperimentatori del nuovo linguaggio hard bop ed uno “stilista” del piano jazz, arte in  cui egli riversò e sublimò senza riserve tutte le sue influenze latine, gospel etc. Ciò comunque avvenne solo dopo il suo necessario periodo di militanza nella nave scuola “Art Blakey - Jazz Messengers”. Dopo un periodo di attività più o meno incerta e comunque utilissima in trio, formò il suo primo quintetto ufficiale, cui seguì il secondo quintetto (o ensemble allargato) “Blue Note”, in cui per diverso tempo suonò anche Joe Henderson. Durante questo peak period il nostro tirò fuori  diversi capolavori, uno è sicuramente “Song For My Father” (Henderson anche lì) ed un altro che di fatto costituisce una pietra miliare della discografia jazz è, senza tema di smentita, “The Capeverdean Blues”. Proverò, dal mio modesto punto di vista di semplice appassionato, a cercare di individuarne le ragioni, ascoltandolo attentamente ed analizzandolo per quanto mi sia consentito .

1) “The capeverdean blues” è un brano in cui l’influenza centroamericana è evidente; essa viene sfruttata in un contesto allegro e carnevalesco, con un qualche riferimento al blues; invero nemmeno troppo evidente. Il tempo latin su cui è giocato è il cosiddetto “montugno”. Esercizio di stile non sterile ma pienamente godibile, che se riferito all’epoca dell’incisione, 1965, da l’idea di quanto le idee di Horace fossero avanzate già allora. Ed è oggettivamente un primo pezzo di questo disco da ascoltare con gioia e studiare!
2) “The african queen” si compone di un ostinato 4/4 in cui Horace, Bob Cranshaw, contrabbassista, e Roger Humpries accompagnano il tema con concentrazione somma; il contrabbasso e la mano sinistra del piano sempre sulle stesse 5 note in ciascuna delle 16 misure, in maniera ossessiva ed esasperante, prima che il tema risolva per 4 misure in un inciso che lascia un pizzico di sfogo allo swing, per poi tornare subito “al chiodo” ed ossessionare l’appassionato di jazz. Sulle spine ed in allerta. Composizione intelligente, innovativa e caratterizzata da grande tensione emotiva all’ascolto, che si protrae per oltre 9 minuti senza fatica, grazie al contrasto tra la base ossessiva e la qualità altissima degli assoli. E due!
3) “Pretty eyes” è un ¾ giocato dalla sezione ritmica come un bel “valzerino… americano”, con grazia e stile, mentre il tema (vario e ben congegnato) viene esposto all’unisono da sax e tromba: ancora una freschissima novità da centellinare; in un disco del 1965! E tre!
4) “Nutville” è un pezzo in 16 misure (8+8), giocato per le prime 8 su tempo latin (ancora il montugno, che ricorda molto nella costruzione il calypso, vedi lo standard St. Thomas) ma che subito dopo vira immediatamente su un veloce swing per 6 misure, a chiudere con le ultime due con uno stop (7a) ed il latin (8a), quale preludio all’ inizio del prossimo giro e così via. Spero di non avere sbagliato a contare: se così è, correggetemi, please!!!. Altro pezzo di bravura collettiva. E quattro!
5) “Bonita” è un brano che risente molto dell’africanità: tema bellissimo e semplice, esposto per l’80% su un pedale di basso mono-tono, con un tempo sapientemente gestito dalla coralità; per la batteria, molti tamburi e pochi piatti; solo lo scarno hi-hat a marcare il tempo, per gran parte dello sviluppo. Vi si trova un intelligente solo di piano in cui Horace da una lezione di intelligenza nell’improvvisare, chiarendo che improvvisare di fatto costituisce l’atto del comporre musica in tempo reale. Belli i salti di tono del piano mentre il basso resta sul pedale di fondo e l’Africa bussa al cuore incessantemente. Solo di trombone di J.J. Johnson da manuale del jazz: altro che storie e chitarre distorte! 08:39 di pura goduria jazz. E cinque!
6) “Mo’ Joe” è invece un pezzo medio veloce che presenta una struttura introduttiva complessa, su cui poi si snodano i soli per uno swing veloce e liberatorio; palestra per scaldare e mostrare i muscoli dei componenti del gruppo. Ancora: composizione intelligente, incastro di colori sonori fatto con gusto ed in tempo reale. E sei!

La formazione che incise questo pezzo di musica immortale è: Joe Henderson al sax tenore magico, Woody Shaw alla tromba da sballo, J.J. Johnson al trombone signorile e compassato, più i tre ritmi summenzionati, Bob Cranshaw al contrabbasso granitico, Roger Humpries alla batteria ciclonica e Horace Silver al piano cosmico. Tipico disco meraviglioso ed insuperabile degli anni sessanta. Siamo, per chi scrive,  sui livelli di “Kind of blue”; volendo tracciare una sorta di parallelo stilistico, potremmo dire che in Kind of Blue compaiono brani ed idee rivoluzionarie; gran parte del contenuto artistico di rilievo è da accreditare agli artisti ed alla sessione, spontanea e genuina. Qui invece troviamo un grosso lavoro di arrangiamento dei brani, i quali sono già “forti” di per se per come sono stati scritti e concepiti.

Un disco importante, godibilissimo ed eterno. Da mettere a palla.
http://www.members.tripod.com/~hardbop/autobio.html  

Elenco tracce e video

01   The Cape Verdean Blues (04:59)

02   The African Queen (09:36)

03   Pretty Eyes (07:30)

04   Nutville (07:15)

05   Bonita (08:37)

06   Mo' Joe (05:44)

Carico i commenti...  con calma