C'è stato un momento, all'inizio degli anni Novanta, in cui il corso della musica rock americana sembrava inesorabilmente rivolto a un ritorno alle radici, mai tanto agognato come dopo la sbornia sintetica di qualche anno prima. Sì lo so, subito viene in mente quella parolina che inizia per "gr" e finisce per "unge", ma per fortuna non c'era solo quello, anzi! Affioravano infatti altre interessanti compagini, legate se possibile ancora di più al sopracitato (e per tanti versi esasperato) purismo della sei corde. I Blue Rodeo, i Counting Crows, i grandi Walkabouts e più tardi gente come i Wallflowers raccolsero quei fermenti propri del rock indipendente di fine '80 (caspita ma quanti nomi c'erano a Minneapolis in quegli anni? Replacements, Husker Du, Soul Asylum...).

E proprio da Minneapolis provenivano i nostri Jayhawks, guidati dalle armonie cristalline di Mark Olson e Gary Louris, emuli di certo illustre folk-country-rock, CSNY e Flying Burrito Bros su tutti. I primi album sono interessanti, una musica che com'è ovvio paga dazio ai maestri, ma nel suo vagabondare cerca spazio dentro il marasma di quegli anni. E' con "Hollywood Town Hall" del '92 che fanno il botto (la cui copertina curiosamente ricordava sia il famoso "divano" dei CSN che certi capelloni che ben conosciamo), trainato da canzoni stupende come la doppietta iniziale Waiting for the Sun - Crowded in the Wings. Nel giro di pochi anni il gruppo era riuscito nel passo più difficile, dare forma alle proprie intuizioni all'interno di un sound finalmente riconoscibile e certamente originale.

L'album successivo doveva essere allora quello della conferma e - se possibile - del nuovo rilancio. Ed è così che, una volta messi sotto pressione, i nostri sfoderano il meglio del loro repertorio: un lotto di canzoni ispiratissime, supportate dal solito impeccabile lavoro alle chitarre e dai consueti incastri vocali. Diciamo che, se "Hollywood..." era il loro disco "americano", "Tomorrow the Green Grass" è quantomai il loro album "inglese", e ancor di più "beatlesiano": impossibile non sentire l'eco dei FabFour nelle armonizzazioni per seste di Blue, e nelle costruzioni melodiche e armoniche di I'd Run Away (altro bel singolo) e Mrs William Guitar. La forza di Olson & co. era proprio questa: abdicando completamente al furore strumentale che caratterizzava l'altra metà del rock dell'epoca, virarono su canzoni all'apparenza semplici e dal forte impatto, alla resa dei conti impreziosite dai bellissimi intrecci vocali e - lo ripeto, perché non è cosa scontata - da suoni puliti e perfettamente eseguiti, con acustiche ed elettriche che dialogano felicemente in un clima di compiuta armonia. Ci sono continui omaggi alla tradizione: niente tastiere o synth, niente partiture cervellotiche. Solo basso, batteria, chitarre e piano, qualche volta Hammond e soprattutto tanto cuore. Aggiungiamoci anche qualche tocco di archi (Over My Shoulder), e abbiamo la ricetta del capolavoro. Il cosiddetto stato di grazia, insomma.

La varietà stilistica e strumentale di quest'album, insomma, faceva da contraltare all'omogeneità e al calore trasmesso dal suo predecessore tre anni prima. I Jayhawks erano riusciti nel fatidico "passo in avanti", non solo di lato, abbracciando una quantità ben maggiore di influenze e di suggestioni, sempre filtrandoli attraverso la loro lente. Si sarebbe rivelato ben presto il loro ultimo atto: pochi mesi dopo l'abbandono di Mark Olson, e a Gary Louris sarebbe toccato riformare il gruppo con nuove coordinate stilistiche. Ma questa è un'altra storia. Resta quel fantastico album, frutto di una partnership che inevitabilmente richiamava grandi nomi del passato. E frutto anche, a guardarla con gli occhi di oggi, di una irripetibile stagione. Presto dimenticata, ma che non smette mai di emozionarmi.


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