Doveva essere divertente vivere a Boston nella seconda metà degli anni 80. Nella città del M.I.T. andava in scena la decadenza dorata dei Celtics di Larry Bird, gli ultimi fuochi nel catino del vecchio Garden dopo il titolo trionfale del 1986: l'ennesima finale coi Lakers dello showtime, le risse coi Bad Boys, le prime apparizioni di Dio travestito da Micheal Jordan e duelli rusticani rimasti indelebili come in gara 7 contro Atlanta nel 1988, con il biondino da French Lick nei panni di salvatore della patria per rispondere agli scultorei assalti all'arma bianca di Dominique Wilkins.

E anche la scena musicale era a dir poco feconda e variegata, con decine di indie-bands nate sulla sponda del Charles River e sulla scia dei pionieri Mission of Burma: Pixies, Throwing Muses e Galaxie 500 le più famose (per non parlare dei Dinosaur Jr, sbocciati nella vicina, emildickinsoniana Amherst), rendendo Boston la mecca del college-rock più pregiato. I Lemonheads furono svezzati in quel filone, propinando nei primi passi un hardcore grezzo e ruvido tra la potenza degli Husker Du e le sguaiate intuizioni dei Replacements, con l'annoiato Evan Dando nei panni di un Paul Westerberg dei quartieri bene; brillanti i risultati segnatamente in "Hate your Friends" del 1987. La svolta avvenne quando il co-fondatore Ben Deily uscì dal gruppo per tornare all'Università dopo "Lick", lasciando il belloccio Evan libero di dare sfogo al suo versante melodico.

Il risultato fu nel 1990 "Lovey", primo LP per i tipi major della Atlantic, compendio di quello che di lì a poco sarebbe stato chiamato indie-rock: il perfetto punto di incrocio tra le asprezze degli esordi e le tentazioni più solari che con l'ottimo "It's a Shame about Ray" e il più manierato "Come on feel"  avrebbero reso il bel Dando una piccola star. Protagonista pure delle cronache più patinate e di un cortocircuito temporale con la cover di "Mrs Robinson", perfetto per il buonismo politicamente corretto dei babilonici anni clintoniani.

Tra i momenti più incisivi dell'opera in questione non si possono non citare l'attacco epilettico di "Ballarat" i prodromi emo-core di "Left for the dead",  i ritmi fratturati di "Come downstairs", il grintoso pastiche hard-rock di "The Door" e soprattutto la marziale e sulfurea "Ride with me", inchino al Neil Young tornato a graffiare la sei corde coi Crazy Horse proprio in quell'anno. Il lato più epidermico di Dando invece si sublima in quell'autentico gioellino power-pop  dalle tinte agresti, degno del sommo Gene Clark, che risponde al nome di "Half the Time", forte di un andamento sghembo e dolcissimo e di una progressione irresistibile o ancora le suadenti armionie di "Stove". Tutti episodi che mostrano un Dando dall'enorme potenziale come autore di canzoni, potenziale non appieno sfruttato negli anni a venire (a parte il citato "About Ray" e l'isolato debutto in solitaria "Baby I'm Bored" del 2002) e dissipato tra dischi mediocri, abusi tossici e comparsate da ballerino scemo  - alla Mauro Repetto - negli spettacoli degli Oasis.

Fondamentale anche la raffinata e soave cover della parsonsiana "Brass Buttons" qui presente, che spianerà la via a tanto alt-country negli anni di lì a venire, oltre a dare il la alla riscoperta persso i circuiti meno tradizionalisti di un genio come Gram Parsons. Genio come Larry Bird.

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