Uscito nel 2003 sotto Season Of Mist (e come altrimenti?) "The Nameless Disease" rappresenta il primo full-lenght dei parigini The Old Dead Tree, a quattro anni di distanza dal demo "The Blossom". Cos'era successo in questo lungo arco di tempo? Il gruppo, pur pronto al salto di qualità, aveva dovuto affrontare un'imprevista e prematura perdita: quella del batterista e co-fondatore Frédéric Guillemot, morto suicida nel 1999 poco dopo il rilascio del mini cd. Un duro colpo per i tre ragazzi francesi, che dopo un iniziale e comprensibile smarrimento decisero comunque di andare avanti; ripartendo anzi proprio da questa tragedia e convogliandone tutto il carico di negatività nelle composizioni che sarebbero poi diventate "The Nameless Disease".

Il disagio senza nome è la depressione, che aveva portato alla morte il loro amico, e che inevitabilmente attanaglia anche chi resta. In più di un'intervista il cantante/chitarrista Manuel Munoz (nonché unico membro fondatore adesso rimasto nei TODT) dichiara infatti che all'epoca i suoi sentimenti erano di infinita tristezza, rabbia, ma anche senso di colpa per non aver capito la portata del male di cui soffriva Frédéric e non averne quindi potuto impedire il gesto estremo. Le liriche dell'album esplorano così il vasto spettro di emozioni e sensazioni che ruotano intorno a un tema così delicato come il suicidio, ma sono trattati con una una sensibilità mai banale. Frutto, in questo caso evidentemente, di una vocazione sincera alla scrittura. Nei testi niente è "urlato", tutto è detto in maniera semplice e nei termini della fredda impotenza di chi capisce che niente resta davanti alla morte se non prenderne atto. Così ad esempio in "We Cry As One"  Munoz si chiede che senso abbiano le parole di un prete per la morte di un ragazzo che egli non ha mai conosciuto; in "It Can't Be"  invece che senso abbia avuto progettare insieme il futuro della band; in "How Could You" esplode la rabbia contro Frédéric (???) per aver tenuto nascosto a tutti il male di cui soffriva. Ma è proprio la rabbia che dona ai testi uno spiraglio di luce in mezzo a tanto dolore...

La musica supporta altrettanto egregiamente questo alternarsi di stati d'animo, e dipinge anch'essa una tavolozza ricca di gamme cromatiche dove la fanno comunque da padrone le campiture nette: il nero del dolore cupo e senza fondo, l'arancione della rabbia e il rosso del sangue. Chitarre e voce bilanciano di volta in volta la furia di riff ai limiti del death/thrash  e di un growl caldo ed estremamente pulito ("It's The Same For Everyone", "Joy & happiness", "Quietly Kissing Death"), con le aperture acustiche e una voce, di Munoz, eccellente anche nelle parti pulite ("Somewhere Else"). Altrettanto raffinati risultano gli incroci fra le due asce (Nicolas Chevrollier alla chitarra ritmica), e fra queste e il basso (Vincent Danhier). La batteria è anch'essa potente ma senza fronzoli (Frank Métayer). Gli inserti elettronici sono ridotti, direi, all'essenziale. Provare se la doppietta iniziale  "We Cry As One"  e "It Can't Be" non ti si stampa subito in testa!! Insomma, buon gusto merito anche forse della produzione esperta di Andy Classen (Rotting Christ, Dew scented, e altri) e della masterizzazione di Goran Finnberg (In Flames, Opeth, Dark Tranquillity, solo per citarne alcuni). Questi due nomi potrebbero bastare per assimilare The Old Dead Tree al filone del death melodico; ma a onor del vero l'album in questione sembra debitore semmai, tanto nelle tematiche quanto nella musica, di band seminali del gothic/doom come i Katatonia, oppure i My Dying Bride piuttosto che i Paradise Lost, o i nostrani Novembre.

Ora che ci penso, in più di un punto, ma soprattutto nei tre brani finali, la delicatezza e l'elegia di alcuni passaggi e della voce richiamano alla mia mente quei gioiellini che furono i debutti degli italianissimi Room With a View e Klimt 1918, rispettivamente First Year Departure del 2002 e Undressed Momento del 2003. Chissà che questi francesini...  

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