"So che dire di ascoltare free jazz fa cool quanto dichiarare di aver preso la lebbra"
un DeBaseriota
Vi ricordate del primo disco che avete ascoltato? Io no. Ma mi piacerebbe sapere che sensazioni io abbia provato in quel momento, quando la prima nota ha toccato i miei padiglioni auricolari. Credo comunque di essere andato molto vicino a quella sensazione, grazie a Ornette Coleman.
Question: "Who da fuck is Ornette Coleman?"
Di recente è passato per Bologna, per una rassegna in suo onore, questo signore di quasi ottant'anni, labbra prominenti mascherate dai baffi con l'inseparabile cappello sulla testa di capelli radi, oltre all'immancabile sassofono. Da giovane, quando viaggiava sulla trentina, si mise in testa di dare fuoco alle polveri, ovvero di inventarsi una musica nuova, qualcosa che andasse oltre. Ma oltre che? Oltre tutto, sostanzialmente, qualcosa che, una volta assunto tutto quello che c'era da assumere del jazz contemporaneo, lo negasse per cercare un linguaggio inedito, che permettesse la massima espressione dell'io artistico. Del resto i titoli dei suoi primi album parlano da soli ("Something else", "The shape of jazz to come"): non esistono accordi, il signore in questione crea l'armolodia, con il solista che non fa delle variazioni, le note costituiscono il tessuto musicale del brano (se ancora di brano si può parlare). Perché farlo? E perché no, ma soprattutto perché Ornette Coleman è un rivoluzionario in tempi in cui l'unico modo che aveva la gente di colore per esprimersi era il jazz: la distruzione di strutture e convenzioni musicali stabilite (o quantomeno, assimilate) dall'uomo bianco è quindi anche un atto politico.
Ma quegli album erano ancora acerbi, non erano ancora del tutto liberi. E poi, si poteva, si doveva, osare di più.
Il 21 dicembre 1960, Coleman raduna, oltre al suo, un secondo quartetto: otto eccezionali musicisti, tra cui Eric Dolphy al clarinetto, Donald Cherry alla tromba e Charlie Haden al basso. Un quartetto suonerà nel canale sinistro, l'altro nel canale destro, sfruttando le (per l'epoca) nuove possibilità dello stereo. Coleman dà pochi indizi, qualche linea da seguire, e si può partire per l'avventura. Pensateci: otto persone che suonano insieme libere. Non a caso, attenzione, ma libere. Libere di dialogare, di non seguire alcuna struttura, anzi, di evitare di seguire ogni struttura preconcetta, verso qualcosa di nuovo, quel cuore di tenebra dell'Africa nera che ogni jazzista ha cercato. Conta l'emozione, la tecnica è il mezzo, assolutamente non il fine. "Free Jazz", nomen omen.
Dice lo stesso Coleman che "ciò che contava era suonare insieme, dando pur sempre un certo margine per ogni musicista, ed essendo libero di seguire un'intuizione offertami da un altro solista". Questo è free: è la musica meno tecnica, cervellotica e complessa che esista, è emozione allo stato brado, è come affondare la mano direttamente nella lava invece che toccare la fredda roccia, quando il magma si solidifica e cristallizza, è continuo divenire, che stimola il profondo dell'anima. Quella notte poco prima di Natale, otto uomini suonarono insieme per un'unica take di 37 minuti qualcosa di trascendente. Non fatevi quindi scoraggiare da chi dice che il free è difficile, è complicato, non si capisce: non c'è niente da capire, signori, solo musica da amare.
Abbeveratevi, quest'acqua è per tutti, e non attingervi sarebbe un delitto.
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